Giornalismo

La strage del Pratello commessa dalla banda della Uno Bianca (foto Ansa)
Nell’epoca in cui le storie di cronaca nera, forse complice la diffusione massiva di aspiranti e amatoriali investigatori, giudici d’appello e di ultima istanza, sono ormai diventate un’appendice centrale e ineluttabile dello spettacolo mainstream, con i casi di Erba, di Garlasco, di Perugia e di Brembate di Sopra tornati alla ribalta e messi in discussione nelle loro definitive risultanze processuali; ecco, in un tal genere di periodo e contingenza storica, con vittime, assassini, sospettati ormai chiamati semplicemente con il loro nome di battesimo, un ritorno alla narrazione di come, nel recente passato, proprio la cronaca nera veniva raccontata e diffusa, consente di vedere i profondi cambiamenti che il giornalismo e, in generale, la diffusione di notizie di nera hanno subìto sia in termini di sensibilità sia in termini di profonda comprensione e analisi di quello che in un dato luogo, in un dato tempo, è accaduto. Ne parliamo con Gianni Leoni, il grande decano della "nera", che per “Il Resto del Carlino” e poi per il Qn, fin dagli anni Settanta ha seguito tutti i fatti di sangue che hanno visto Bologna sulle prime pagine dei quotidiani dell’epoca, impegnando forze di polizia e magistratura in indagini spesso difficili e pericolosamente soggette a vicoli ciechi e punti morti, considerando anche le risorse scientifiche all’epoca disponibili nella ricerca e nell’acquisizione delle prove.
«Mi è sempre interessata la cronaca sul posto, non tanto la fase processuale – racconta Leoni – e uno dei casi più illustri che ho seguito è quello che poi è rimasto alla memoria come il caso dei delitti del Dams». Siamo nel 1983. Il 12 giugno Bologna è assediata dal caldo e Francesca Alinovi, critica d’arte e ricercatrice dell’Alma Mater, torna a casa, fa alcune telefonate e, poi, secondo le ricostruzioni processuali, viene barbaramente uccisa tra le 17 e le 24. «In quei giorni a Bologna l’atmosfera era rilassata, era in corso un importante evento di pugilato e non si parlava d’altro. Quella sera, appresa la notizia, mi recai immediatamente in via del Riccio 7. La Alinovi venne uccisa con una tempesta di fendenti causati da un piccolo coltellino, forse un temperino. Il colpo fatale fu quello alla giugulare. In casa mi ricordo una grande scritta sul muro. Era un personaggio singolare, eccentrico, una brunetta con lo sguardo leggermente spiritato che amava e insegnava al Dams l’arte di strada».
Ed è proprio nelle aule dell’Università che la donna conosce un certo Francesco Ciancabilla, allievo e artista pure lui, poi indagato e condannato per l’omicidio della giovane ricercatrice. «Passavano insieme le serate e, all’inizio, non si riusciva bene a capire se dietro il loro rapporto ci fossero anche questioni di droga e di sesso, come poi emerse dalle successive indagini. Ciancabilla, che affermò sempre la propria innocenza, venne fermato il 21 giugno. In primo grado venne assolto, in appello fu condannato e nelle more della sentenza della Cassazione fuggì in Spagna dove poi fu arrestato nel 1997».
Se il caso Alinovi è quello che più ha avuto risonanza mediatica, risale a un anno prima, al 30 dicembre 1982, l’omicidio di Angelo Fabbri, anche lui studente del Dams, così come quello di Liviana Rossi, trovata morta in Calabria il 3 luglio 1983 e di Leonarda Polvani, scomparsa da Bologna il 29 novembre dello stesso anno e rinvenuta cadavere pochi giorni dopo in una grotta fuori città. «Rimangono misteri irrisolti – continua Leoni – se escludiamo il caso Rossi per il quale fu arrestato e condannato Pietro di Leoni, il gestore di un albergo nel quale la ragazza aveva soggiornato. Angelo Fabbri era uno degli studenti più apprezzati da Umberto Eco (proprio in quei mesi usciva il giallo gotico del professore "Il nome della rosa", che coinvolse emotivamente gli studenti del Dams n.d.r.), il suo corpo venne trovato sull’Appenino, in Val di Zena, una zona amata dai ciclisti che d’estate sfoggiavano le loro biciclette più eleganti. In inverno era una zona poco frequentata. Fabbri fu rinvenuto in un boschetto da alcuni cercatori di tartufi. Era in una piccola scarpata a faccia in giù e, quella sera, arrivai poco dopo sul posto. Si scoprì che il corpo era stato avvolto dall’assassino o dagli assassini in due lenzuoli. Seguendo le tracce ematiche che conducevano alla strada principale, fu subito chiaro che il cadavere venne portato a mano in quel punto, anche perché un’auto non sarebbe stata in grado di percorrere quel tratto di sentiero fitto di alberi e vegetazione. La polizia trovò i lenzuoli in un cassonetto lì vicino e le indagini successive permisero di appurare che il giovane fu colpito da circa quattordici coltellate alla schiena. Un coltello piuttosto grande impugnato da una mano forte, a differenza dei piccoli e ripetuti tagli che subì la Alinovi».
E qui Leoni e un collega fotografo fanno quello che un cronista di nera, per passione, per dedizione, per raggiungere la più ampia precisione possibile nel racconto dei fatti, dovrebbe fare, fa o anche solo sogna di fare. «Qualche sera dopo ritornammo sul luogo del delitto e facemmo una simulazione di quello che pensavamo fosse successo il giorno dell'omicidio. Volevamo capire come fosse stato possibile trasportare il corpo di Fabbri, che era alto e robusto, dalla strada provinciale al bosco in cui fu ritrovato. L'assassino aveva scelto quel posto a caso o lo consceva bene? La strada e le luci del paese non erano visibili ed era indubbiamente un posto tranquillo per abbandonare un corpo senza essere visti». Un delitto quasi perfetto che rimase e rimane irrisolto. «L'indagine fu molto complicata. Io potrei anche immaginare chi ha ucciso Fabbri, ma sono un giornalista, non un giudice o un poliziotto. La differenza tra me e loro è che io ho raccontato i fatti, mi sono fatto un'idea, ma non ricerco prove. Si parlò anche di un movente sentimentale, di questioni di gelosia. Non dico che gli investigatori non furono scrupolosi, però certamente ci furono delle criticità e delle carenze di abilità nel condurre le ricerche».
Ricerche che, come nel caso Fabbri, non portarono all'individuazione del colpevole dell'omicidio di Leonarda Polvani «che lavorava in un laboratorio orafo in un viale della circonvallazione. Abitava a Casalecchio. Una serà tornò a casa e sparì dal garage mentre stava parcheggiando la macchina. La ritrovarono in una grotta della Croara, sopra San Lazzaro, uccisa da un proiettile al cuore. Mi recai sul posto e mi ritrovai davanti un luogo piuttosto singolare, lievemente macabro anche per le messe nere che, dicono, in queli luoghi si svolgessero. C'era una sorta di grande cupola e, proprio lì, fu rinvenuto il corpo della Polvani».
Le indagini non approdarono a nulla e i giornalisti, le forze dell'ordine e la magistratura ancora non immaginavano quale grande caso di lì a poco avrebbe sconvolto le vite di decine di vittime innocenti, avvolte in una spirale sconsiderata e inspiegabile di violenza, sangue e freddezza. Il caso della Uno Bianca. «Nei mesi e negli anni in cui la banda terrorizzò Bologna e la Romagna, c'era un'aria sinistra terribile. Al Pilastro, la sera della strage, fui uno dei primi ad arrivare. Quando arrestarano Fabio Savi in un autogrill sull'autostrada per l'Austria nel novembre 1994, io partii da Bologna e raggiunsi il luogo dove lo processarono per direttistima per la detenzione di un'arma. Seguimmo tutte le vicende della banda in cinque o sei colleghi e, per l'adrenalina, non dormivamo neanche più. Non sentivamo la fame e ci sembrava di vivere in uno scafandro. Io sono molto emotivo e vivo profondamente tutte le sensazioni del momento. Parlavamo tra di noi e ci siamo resi conto subito che qualcosa non quadrava. Il sospetto che dietro gli assassini si nascondessero dei poliziotti o dei carabinieri si fece sempre più intenso. Non era possibile che le forze dell'ordine presidiassero capillarmente alcune zone della città e della provincia e che, tutte le volte, dopo le rapine e gli omicidi, la banda riuscisse a fuggire senza mai incrociare un posto di blocco. C'erano pattuglie in borghese dappertutto e dei criminali "normali", non appartenenti agli apparati di sicurezza, senza l'accesso al programma delle attività di perlustrazione del territorio, non avrebbero potuto nascondersi così efficacemente. Il sospetto venne anche a chi indagava e, Carabinieri e Polizia, per una volta, si misero d'accordo, riuscendo a lavorare insieme e mettendo da parte la concorrenza che indubbiamente tra di loro c'è sempre stata. Si sono divisi la torta a fette». Una spartizione precisa dei ruoli e dei compiti, come quella esistente tra i giornalisti di cronaca e di giudiziaria che all'epoca era piuttosto delineata. C'era chi si occupava della scena del delitto, del racconto dei testimoni, delle attività sul campo degli investigatori. E c'era chi seguiva, poi, la fase processuale, le udienze dibattimentali, i momenti di formazione della prova dinanzi alla Corte d'Assise per i casi più gravi.
Leoni ha consumato le suole delle sue scarpe documentando tutto quello che succedeva dopo un omicidio o una rapina, scrivendo in presa diretta quello che i suoi occhi e la sua sensibilità gli consentivano di percepire. Non solo a Bologna, ma in tutto il territorio nazionale. Il massacro del Circeo, lo scambio epistolare con Angelo Izzo, il mostro di Firenze, l'assassino seriale Donato Bilancia che terrorizzò Piemonte e Liguria, Unabomber. «Generalmente io arrivavo sul posto a caldo e poi non mi occupavo dei processi e dei successivi sviluppi delle indagini. Con Angelo Izzo e Donato Bilancia iniziai una corrispondenza piuttosto intensa. Nel corso degli anni, Izzo mi ha scritto circa quattrocento lettere. Un personaggio che definire particolare è un eufemismo». Una visione e un racconto, quello di Leoni, che si allarga ai casi nazionali più illustri, quelli che hanno fatto discutere stampa, magistratura e opinione pubblica. «Tra i tanti che ho seguito, mi ricordo con precisione il caso di Wilma Montesi, una ventunenne trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica nel litorale romano. C'era un contorno piuttosto oscuro di politici, industriali e droga.
Poi, uno dei primi femminicidi su commissione, che fu seguitissimo dalla stampa e dagli italiani. Quello architettato da Giovanni Fenaroli che fece uccidere la moglie, un delitto quasi perfetto. Erano tempi diversi e, accanto ai casi più forti mediaticamente, c'erano anche storie cruente e non così eclatanti che si risolvevano in pochi giorni senza tanto clamore». Tempi davvero diversi rispetto agli ultimi anni, caratterizzati da un voyeurismo esasperato e ostentato verso i fatti di sangue, dove le linee dell'informazione e quelle del chiacchiericcio si confondono e si sovrappongono. «All'epoca era diverso non solo il modo di fare informazione, ma anche il modo di fare le indagini. Oggi accendi il televisore e la cronaca nera è ovunque. È diventata una forma di intrattenimento, con psichiatri, giornalisti e criminologi che dicono la loro, magari senza aver mai visto un cadavere o una scena del crimine. Si cerca di interpretare la psiche umana e di collegare indefettibilmente la tendenza al crimine con quello che si è vissuto durante l'infanzia: "I genitori si sono separati, è stato maltrattato in casa, aveva carenza d'affetto, ecco perché è diventato un delinquente". Non è sempre così. Tutto questo fa parte della spettacolarizzazione del dolore e il giornalista deve fare molta attenzione nel momento della scelta di quello che vuole raccontare. E di come vuole farlo».
Leoni non si è mai occupato di terrorismo perché «per me, scrivere di terrorismo vuol dire fare pubblicità ai terroristi. É complicatissimo. Le Brigate Rosse mi facevano trovare in casa i loro documenti: "Ti riteniamo direttamente responsabile della mancata pubblicazione intgrale", era la loro frase di chiusura. L'originale del documento lo portavo alla polizia, la copia al direttore del giornale che mi diceva: "Gianni facciamo una sintesi". I terroristi volevano la diffusione totale dei loro scritti e, per cavarsi dall'impiccio, la soluzione della direzione era quella di non firmare l'articolo. Mi sono sentito dire tante volte "Allontanati, vai dove vuoi, vai in vacanza, vai dove ti pare". Sapendo che io non sarei mai andato». Non in vacanza, ma ancora una volta sul luogo di un delitto, con penna e taccuino e quella passione irresistibile.