Il libro

Philip Roth (foto Licenze Creative Commons)
Ci sono libri in grado di fare a pezzi gli animi e svelare l’abisso delle ipocrisie e delle idiosincrasie umane. Tra questi c'è “Lamento di Portnoy”, uno dei tanti capolavori di Philip Roth, da poco riedito da Adelphi semplicemente come “Portnoy”. Protagonista è appunto Alexander Portnoy, giovane in crisi con la sua identità ebraica che si concede alla terapia psicoanalitica. Seguendo questa impronta, la struttura del libro è singolare: un lungo monologo in cui il nostro eroe tragico e ridicolo rigetta tutte le sue nevrosi, le sue ossessioni e i suoi “peccati”, come la masturbazione compulsiva e i rapporti con le gentili, cioè le non ebree. Il romanzo, che descrive la sessualità con un linguaggio triviale, lucido e onesto, venne osteggiato dalla società perbenista americana e dalla rigida comunità ebraica. L’insensata accusa fu quella di pornografia e antisemitismo. La nuova versione si discosta molto dall’ormai classica edizione Einaudi. Ne sono un esempio il titolo dell’opera, privo di quel “Lamento” attraverso cui i travagli di Portnoy vengono ben simboleggiati, e i cambi dei titoli dei capitoli (tipo “Pippe” invece di “Seghe”, “Pazzo per la figa” al posto di “Figomania”). In editoria queste cose sono normali con un “cambio di casacca”, ma ora tali elementi hanno certamente perso un po’ della loro patina irriverente con la nuova e leggermente più timida traduzione. “Portnoy” risulta comunque una buona occasione per conoscere o riscoprire un autore che, attraverso le sue storie, ha sempre da dire sui significati scomodi dell’essere umano e sulle insensatezze della società.
La recensione è tratta dal Quindici n.5 del 12 giugno 2025