Esteri

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, rieletto da pochi mesi per un secondo mandato (Foto: Ansa)

 

«Oggi comincia l’età d’oro dell’America. Il nostro paese prospererà e sarà di nuovo rispettato in tutto il mondo». Era il 20 gennaio 2025 quando Donald Trump annunciava così il suo ritorno alla Casa Bianca, dopo quattro anni di amministrazione Biden. Le parole del magnate immobiliare suonavano sia come una promessa di un ritorno agli splendori di un tempo per i suoi concittadini, sia come un avvertimento per il resto del mondo, con il quale è sempre stato in costante frizione.

Dal suo primo mandato Trump offre un’immagine da presidente a cui non eravamo abituati: scandali etici e politici, uscite di dubbio gusto e mosse politiche controverse. Adesso, l’imprenditore newyorkese ha alzato l’asticella, impiegando una comunicazione politica aggressiva, sopra le righe e noncurante di qualsiasi convenzione diplomatica in vigore. Almeno, molto di più di quanto ci aveva mostrato tra il 2016 e il 2020. La politica internazionale è stata il palcoscenico principale di Trump, pronto ad applicare la linea dell’"America first" a scapito degli altri protagonisti dello scacchiere geopolitico, tra cui l’Unione europea, creata secondo lui «per fregare gli Stati Uniti» e abitata da «parassiti».

Così come Cina, Canada e Messico, l’Europa ha subito la minaccia di pesanti dazi sulle sue merci estere, con i paesi membri che si sono riuniti disordinatamente per formulare una risposta all’atteggiamento instabile del leader repubblicano. Per questo, la comunità globale si è divisa tra chi sostiene le azioni di Trump, assecondandone le richieste e giustificandone gli approcci, e chi invece le definisce una deriva autoritaria dannosa non solo per il dialogo diplomatico, ma anche per la sovranità delle altre nazioni. Il litigio con Zelensky nell’Ufficio Ovale, le minacce di abbandono della Nato, il “progetto di pace” per la guerra tra Israele e Gaza e per ultimo la guerra commerciale intrapresa col resto del pianeta sono gli esempi più in vista dei terremoti diplomatici made in Usa.

Numerosi esperti di geopolitica legati alla sfera culturale di Bologna hanno fatto sentire la loro voce per dar un senso al comportamento degli Stati Uniti e prevedere quali conseguenze, di volta in volta, gli approcci ostili di Trump potranno provocare sull’equilibrio degli accordi internazionali e dell’economia mondiale.

La strategia dei dazi

L’arma diplomatica preferita di Trump sono stati i dazi d’importazione sulle merci estere, che servono ad arricchire gli Usa e interrompere quei “rapporti economici iniqui” che esisterebbero tra gli Stati Uniti e molti altri paesi del mondo e per piegare le economie estere al volere statunitense.

Tuttavia, i rischi per gli Stati Uniti di una tale mossa sarebbero molto più grandi dei benefici, quindi c’è una logica dietro tutto questo? Piero Ignazi, politologo e professore dell’Università di Bologna, sostiene che «i dazi hanno poco a che vedere con una strategia economica. Sono frutto di una missione ideologica, cioè vogliono mostrare che l'America è forte e può fare quello che vuole, mentre tutti gli altri si devono inchinare e riconoscere la sua forza. Quando i consiglieri di Trump hanno dichiarato che 50 Paesi hanno chiesto di negoziare dopo l’arrivo dei dazi si è voluto dimostrare che l'America è tornata grande».

O per dirla con le parole di Trump stesso: «Gli altri paesi ci stanno chiamando, ci stanno baciando le chiappe chiedendo, implorando “per favore, negoziamo, troviamo un accordo, faremo qualsiasi cosa”». Queste dichiarazioni, insieme al fatto che i dazi vengono prima annunciati e poi bloccati, applicati e poi interrotti o revocati, suggerisce che l’obiettivo ideologico è prioritario rispetto a quello economico.

Più in generale, anche Federico Petroni, analista geopolitico della rivista Limes, è convinto che le minacce del presidente siano più uno strumento di propaganda che tentativi concreti di squilibri politici. «La comunicazione di Trump è molto audace e pretenziosa, punta sempre a cento per raggiungere cinquanta. Prima della vittoria alle elezioni, Trump ha detto che porrà fine alla guerra in Ucraina in ventiquattr’ore, ma una volta eletto, ha corretto il tiro dicendo che per la fine del conflitto ci vorrà tempo».

Trump e l'Unione europea

Per quanto riguarda i rapporti tra Usa e Ue, Renaud Dehousse, rettore della sede bolognese della Johns Hopkins, università statunitense all’avanguardia per ricerca scientifica, medicina e studi internazionali, ha espresso profonda preoccupazione: «Per Trump l’Europa è un nemico: vuole destabilizzare il fronte unico europeo, offrendo canali privilegiati di comunicazione e scambi di favori con chi lo asseconda. Nel nostro continente i suoi sostenitori ci sono e si chiamano Patrioti per l’Europa». I Patrioti per l’Europa, come si sa, sono una coalizione di partiti politici europei di destra e estrema destra, capeggiati da figure come Viktor Orbán, Matteo Salvini e Marine Le Pen, i quali hanno accolto e rilanciato le posizioni sovraniste e anti-establishment del presidente americano.

Nonostante la loro presenza possa causare scontri politici, Petroni ritiene che: «un’Europa destabilizzata non è nell’interesse di Trump, come non lo è un’Europa compatta e unita. Gli Usa vogliono piegare le singole nazioni alle loro volontà, e per raggiungere questo obiettivo Trump ha usato sia i dazi che altre ripercussioni economiche se non fosse aumentata la percentuale del PIL dedicata alla difesa dei paesi Nato».

Ignazi è invece stato più critico verso la risposta confusa di Bruxelles: «Le risposte dell’Unione europea finora non ci sono state; ha dato qualche segno di vita difendendo Zelensky, però è tutto lì. La coalizione dei volenterosi è una buona idea, ma si resta nel campo delle buone intenzioni, senza giungere al concreto». Paolo Pombeni, storico e professore dell’Università di Bologna, sottolinea la necessità di affrontare direttamente gli ostacoli che questi “soggetti ostruzionisti” possono costituire: «L’Unione europea deve inventarsi un nuovo iter legislativo, perché quello attuale è spesso vittima dell’ostruzionismo di paesi come l’Ungheria e l’Austria. Basta rivedere le parole di Orbán, che ha definito i paesi presenti al summit del 17 febbraio di Parigi – convocato per definire le possibili risposte europee all’aggravarsi del conflitto in Ucraina – come “quelli che vogliono fare la guerra a Putin”. È in questi momenti che le debolezze della struttura europea vengono alla luce, perché essa non ha gli strumenti per mettere ai margini questi ostruzionisti».

Meloni – Ue – Usa

Nel mezzo delle fazioni che minano l’equilibrio europeo, Giorgia Meloni ha sin dal principio occupato una posizione intermedia: ha ribadito il suo sostegno verso la linea comune europea, senza però escludere l’apporto logistico e militare da parte degli Stati Uniti. Infatti, la presidente del Consiglio ha sempre sostenuto di voler continuare come stretto alleato degli Usa, anche di fronte delle politiche aggressive di Trump.

In risposta all’idea di un’Italia paciere tra Usa e Ue, molti esperti hanno accolto positivamente il tentativo di mediazione avanzato dalla premier italiana. Per Pombeni «la prospettiva di una Meloni mediatrice tra Usa e Ue non è così improbabile come può apparire, perché mantenere un buon rapporto con gli Usa è un obiettivo condiviso da molti stati dell’Ue. Dunque, Meloni offre un approccio calcolato e conservatore, il quale è più che auspicabile in questo periodo tumultuoso. D’altra parte, Trump si accorgerà presto che non può fare a meno dell’Ue, in quanto è un alleato troppo prezioso a livello economico e strategico».

L’obiettivo di Meloni, però, suscita anche non pochi scetticismi, come racconta Marco Valbruzzi, esperto di geopolitica formatosi a Bologna e professore dell’Università Federico II di Napoli. Il docente afferma che «Meloni si trova di fronte a un bivio: deve scegliere se sostenere un progetto europeo autonomo dagli aiuti statunitensi, oppure mantenere il canale privilegiato con gli Usa, soprattutto dopo la spinta di Merz verso una difesa comune europea attraverso l’investimento di 200 miliardi per il riarmo della Germania».

Più categorico, invece, Dehousse: «Il rapporto di Meloni con Trump può essere un veleno per l’Europa, perché la premier non è in una posizione per trattare con gli Usa. L’obiettivo di Trump è quello di allineare i singoli leader europei per indebolire il ruolo dell’Ue e bypassare la mediazione di Bruxelles, ma questo vale sia per Meloni che per qualsiasi altro capo di governo europeo». Anche Ignazi di dimostra scettico sulla posizione della presidente del Consiglio: «È certo che Meloni dovrà schierarsi con l'Europa, non c'è scampo. Sta puntando i piedi per cercare di resistere, ma alla fine dovrà cedere all’allineamento con l’Ue, a meno che non voglia causare un patatrac».

Un ulteriore ostacolo alle ambizioni di Meloni sono i due vicepremier, Antonio Tajani e Matteo Salvini. Se il primo ha tenuto tutto sommato una posizione moderata e allineata con le parole della presidente del Consiglio, il leader della Lega è stato protagonista di molti strappi anti-europei. Salvini ha suggerito che Trump «è il futuro della storia dell’Occidente» e che «i dazi sono un’opportunità», mentre l’Italia «deve comprare armi dagli Usa», perché dare più fiducia alla Commissione Ue, definita «bellicista», e all’Europa tutta, sarebbe «come dare un fiasco a un alcolista».

Queste posizioni più estreme hanno generato dure risposte da parte di Tajani e numerosi richiami di Meloni, dunque è possibile che a causa di Trump possa esserci una spaccatura nel governo? Ignazi è convinto che ciò non accadrà: «Il rischio di destabilizzazione è molto ridotto, perché alla fine troveranno una linea comune da sostenere tutti insieme. Dunque è inutile pensare che su temi come il rapporto con gli Usa e l’Ue ci possa essere una rottura tra Salvini e Tajani. Non esiste proprio, sono fantasie». Ignazi spende due parole in più su Salvini: «Così come Trump, Salvini fa il suo gioco per evitare che la Lega sparisca politicamente, vuole dimostrare che la Lega c'è. Per farlo, vuole caratterizzare la propria identità e sottolineare che il suo partito ha una linea diversa dagli altri membri della coalizione».

Tuttavia, anche se ci riuscisse, può Meloni rimanere tra i privilegiati di Trump nel lungo termine, a fronte di queste continue spaccature? Secondo Filippo Andreatta, professore di Politica Internazionale e Studi Strategici di Unibo, ciò dipenderà solo dal neo presidente degli Usa: «Meloni ricopre una posizione anomala come capo di un partito di estrema destra, poiché vuole appoggiare gli Usa senza allontanarsi dalla linea comune dell’Ue. Tuttavia, questo rapporto con gli Stati Uniti durerà solo finché Trump vorrà e gli converrà, perché il loro obiettivo è far valere il loro potere diplomatico sui singoli stati, dividendo l’Ue».

I Contropoteri

L’imprevedibilità del presidente newyorkese è ciò che lo rende, come dicono in molti, “spaventoso”, e in tanti si chiedono fin dove le sue minacce si fermino alle parole e quali prenderanno forma nel mondo reale. Ma è possibile che negli Stati Uniti, definiti più volte come la patria della democrazia, Trump abbia tutto questo potere? In Italia sono conosciuti come contropoteri, mentre negli Usa si chiamano checks and balances: si tratta di un sistema di pesi e contrappesi nati con la Costituzione statunitense per impedire che un singolo ramo del governo (legislativo, esecutivo e giudiziario) acquisisca troppo potere rispetto agli altri. Per esempio, dopo le elezioni mid term del 2018, i contropoteri hanno limitato molto i poteri della prima amministrazione Trump, poiché i Democratici avevano ottenuto la maggioranza nel Congresso, a danno dei Repubblicani.

Oggi, invece, non solo i Repubblicani hanno saldamente la maggior parte dei seggi nel Congresso, ma hanno dalla loro parte anche sei dei nove giudici della Corte Suprema. Per capire meglio questa situazione ci aiutano le parole di Dehousse: «I contropoteri rendono il presidente una posizione con poteri di per sé “deboli”, ma Trump ha un controllo senza precedenti nel suo partito, nella Corte Suprema e nel Congresso, permettendogli di realizzare decisioni più facilmente». «Nel Congresso, i Repubblicani hanno una maggioranza solida – continua Dehousse – mentre la Corte Suprema è stato l’unico organo che finora ha ostacolato le azioni interne di Trump. Basti vedere la revoca dello ius soli, bloccata perché palesemente anticostituzionale».

Quindi stavolta i contropoteri non possono fare nulla? Per fortuna, la situazione non è così definita. Anche tra le fila dei Repubblicani, difatti, ci sono esponenti contrari alla linea Trump (conosciuti come never-Trumpers) che potrebbero formare un argine efficace alle politiche del presidente, attraverso atti di contestazione pubblica e ostruzionismo politico. Al contrario di Dehousse, Petroni sostiene che il potere di Trump sarà molto minore rispetto a quanto preventivato, grazie ai contropoteri statunitensi e al sistema di garanzie internazionali che sorreggono il panorama geopolitico. «Trump ha una maggioranza risicata nel Congresso, mentre la Corte Suprema ha già dimostrato che ha il potere di fermare gli ordini esecutivi di Trump. Sul fronte estero, invece, esistono altrettante misure di sicurezza che quantomeno riusciranno a ridimensionare le richieste del presidente Usa».

Elon Musk e Doge

Il fattore di imprevedibilità più in vista – oltre al presidente stesso – è senza dubbio Elon Musk. Il fondatore di SpaceX e proprietario dell’ex Twitter è stato messo a capo del Doge (Dipartimento dell'efficienza governativa), un’organizzazione creata ad hoc per ridurre le spese pubbliche e snellire la pubblica amministrazione del paese. Questo si è tradotto, però, in un licenziamento di massa che ha lasciato circa 9.000 dipendenti pubblici senza un lavoro, mentre i fondi a progetti come lo UsAid e altre iniziative dedicate alla ricerca scientifica e medica sono stati tagliati.

Le azioni del Doge hanno suscitato una risposta molto ostile sia da fonti interne che esterne agli Usa. Petroni e Dehousse sono polemici. Entrambi hanno criticato la natura ideologica del Doge: il primo sostiene che Musk «vuole epurare dalla Pubblica Amministrazione le influenze del Partito Democratico e rimuovere quelle aziende e iniziative che sostengono tutti quegli interessi che non siano degli Stati Uniti», mentre il secondo afferma che il Doge «cerca di sovvertire i meccanismi di controllo che il governo centrale ha sull’economia degli Usa».

I tagli del Doge hanno interessato finora solo i settori pubblici, ma secondo Petroni la vera destabilizzazione arriverà «se e quando gli interventi toccheranno gli apparati militari, perché a quel punto i burocrati potrebbero davvero coalizzarsi contro le azioni di Trump. L’esempio migliore sono le proteste che ha suscitato il tentativo del Doge di ridurre l’organico di uffici come quello della Cia». «Il dipartimento di Musk – approfondisce Dehousse – segue l’ideologia liberista del suo leader, dove lo stato deve intervenire il meno possibile sul mercato e deve ridurre al minimo la spesa pubblica. Il Doge ha già interferito molto con diverse iniziative pubbliche nel nome dell’efficienza economica, grazie ai suoi poteri che gli permettono di agire in modo veloce ed efficiente nei settori della Pubblica Amministrazione».

La stessa Johns Hopkins, insieme ad altre università statunitensi, si è opposta a questa ondata di tagli della spesa pubblica. Conclude Dehousse: «Abbiamo presentato un ricorso con il supporto di numerosi istituti statunitensi per opporci all’interruzione dei sostegni economici verso la ricerca. Fortunatamente il ricorso è andato a buon fine e i fondi non si sono interrotti, ma ciò dimostra l’impatto fortissimo che il Doge ha avuto ed avrà in futuro su tanti settori. Uno di questi che mi preoccupa sono i fondi delle borse di studio negli Usa, poiché temo che prima o poi potranno subire anche loro l’azione del Doge».

 

L'articolo è tratto dal Quindici, n.2 del 30 aprile 2025