rock

Il cast di Lazarus all'Arena del Sole (foto di Paolo Pontivi)
«Guarda qui, sono in paradiso. Ho cicatrici che non si vedono, ho il mio dramma, nessuno me lo può togliere. Tutti mi conoscono adesso». È “Lazarus”, di David Bowie. E, Manuel Agnelli, all’Arena del Sole, ha messo in scena lo spettacolo omonimo che tra musica e recitazione racconta la storia di un uomo. Forse, la storia “dell’uomo”. Prigioniero delle proprie dipendenze e delle visioni di un passato che non è sicuro di aver realmente vissuto. Un futuro distopico che appare sui megaschermi allestiti attorno al palco, tra incubi, ossessioni e una ricerca disperata d’affetto che gira su se stessa come la piattaforma ruotante su cui è sistemata la poltrona del protagonista. Ispirato al romanzo “L’uomo che cadde sulla Terra” di Walter Tevis, la storia è quella di Newton, un migrante interstellare che non può né invecchiare né morire.
Paure ancestrali che si trasformano in follia urlata e cantata da Agnelli che reinterpreta i brani del Duca Bianco, accompagnato da un band di ritmica. “The Man Who Sold the World”, “Love is Lost”, l’intensa versione di “Absolute Beginners”. E poi l’intramontabile “Life on Mars”, cantata da Casadilego, nome d’arte di Elisa Coclite, vincitrice della tredicesima edizione di "X Factor".
In scena affianca Newton nella sua solitudine, la rappresentazione diretta della parte più bella della vita, l’eterna lotta tra ciò che si desidera e ciò che, in fin dei conti, si può materialmente ottenere. Casadilego è l’anello di congiunzione tra l’impossibilità di spiccare il volo, tornando così nel proprio universo interiore, e la condanna a un’esistenza terrena che con le sue guerre, le invidie e le incomprensioni, sopprime qualsiasi necessità umana di ricercare la felicità, come in un circolo vizioso da cui è difficilissimo, se non impossibile, uscirne.
Un’opera rock che risulta ancora più attuale oggi, con l'intensificarsi del dibattito politico, sociale e religioso sull’immigrazione. Sulla volontà e la necessità di ricercare un posto migliore in cui mettere le proprie radici e veder così nascere quella pianta che rappresenta i frutti che ogni essere umano merita e ha il diritto di cogliere.
I movimenti degli attori in scena richiamano il bisogno di dimenarsi, di ribellarsi alle ingiustizie che rendono gli esseri umani come pedine su una scacchiera automatizzata. Le braccia verso il cielo di Newton, le corse intorno a una stanza buia che è allo stesso tempo prigione e prigioniera dell’anima dell’uomo. Il genio creativo che accoglie, assimila e rigetta la sofferenza e l’immagine e la somiglianza del talento umano e artistico di Bowie che per l’ultima volta apparse in pubblico proprio alla prima di Lazarus, a New York, il 7 dicembre 2015. Una sorta di testamento spirituale che dimostra l’inguaribile potenza della speranza. La speranza di liberarsi una volta per tutte dai costrutti sociali, dai pregiudizi, dalla convinzione di non poter essere “Heroes”, eseguita solo al pianoforte, quasi sussurrata, alla fine dello spettacolo, in un abbraccio definitivo e da cui non è più possibile tornare indietro. Finalmente libero, Newton, e liberi.
Il testo di "Lazarus", ultimo brano scritto e interpretato da David Bowie
Look up here, I’m in heaven
I’ve got scars that can’t be seen
I’ve got drama, can’t be stolen
Everybody knows me now
Look up here, man, I’m in danger
I’ve got nothing left to lose
I’m so high it makes my brain whirl
Dropped my cell phone down below
Ain’t that just like me?
By the time I got to New York
I was living like a king
Then I used up all my money
I was looking for your ass
This way or no way
You know, I’ll be free
Just like that bluebird1
Now ain’t that just like me?
Oh, I’ll be free
Just like that bluebird
Oh, I’ll be free
Ain’t that just like me?