Teatro
Silvio Orlando in Ciarlatani (foto di Paolopontivi)
Una prova d’attore di quelle serie, di quelle complesse. Tanti personaggi nel corpo di un uomo solo. Il corpo e la voce di Silvio Orlando. Che diventa bambino, barista, padre, figlio, nonno, spettatore, consigliere di se stesso e dei propri desideri, vittima della paura, dell’incertezza, della bellezza. Ancora vittima e carnefice di una società contemporanea che sembra avere perso la sua guida. Dell'infallibile e altrettanto flebile tentativo di risvegliarsi, di perdonare e di perdonarsi. “Ciarlatani”, dello spagnolo Pablo Remòn, utilizza il teatro e il palcoscenico come un pretesto per rompere le quinte e parlare direttamente al pubblico, per confondere la scena con la platea, il sipario con il velo che sempre più spesso oscura la vista a chi dei propri occhi ne ha fatto soltanto uno specchio per commiserarsi e non lasciarsi libero.
Preda di facili alibi per tirarsi indietro e per non agire, nell’apatia che diventa ragione e religione di vita, nell’immobilismo che sconvolge e inquina le ambizioni. E quel palco che si ritrova a essere uno spaccato inconsapevole del sentimento sconvolgente della tecnologia, dei luoghi comuni, di ciò che dovrebbe far stare bene. Perché, se lo dicono tutti, allora deve essere vero. E invece no. Orlando, insieme agli altri attori, dipinge una realtà diversa, i contorni fuori fuoco di un mondo che potrebbe essere un’altra cosa, che non è necessariamente quello che l’informe massa del genere umano pensa che sia. Che non è irrimediabilmente compromesso dalla logica del denaro e del potere. Il sogno di una ragazza - interpretata da Blu Yoshimini - e la sua tenacia nel perseguire le luci della ribalta diventano la metafora della necessità di non accontentarsi, di darsi con l'anima e con il corpo per ottenere ciò che si vuole. Della mancanza di alternative tra l’essere disposti a tutto e l’essere barricati dietro e dentro la prigione delle proprie frustrazioni. Eternamente in dubbio tra ciò che si ha e ciò che si è. Potrebbe essere tutto molto più semplice, eppure la mancanza di una vera trama e di un filo che conduca da un punto cardinale al suo opposto è la rappresentazione in scena della vita, con le sue imprevedibili giravolte, i cambi di passo e i colpi di testa. Il rapporto spesso difficile tra genitori e figli, la mancanza d’affetto e d’amore, quelle lacrime che fanno fatica a scorrere.
Uno spettacolo che non ha né un inizio né una fine, che si apre con una cerimonia di premiazione paradossale e che si chiude in un bar che è un po' il riflesso dei propri non detti, dei propri silenzi e di tutto quello che si vorrebbe gridare, finalmente liberi.
Un cast che accanto a Orlando funziona da spalla e coscienza, nel bianco che si colora attraverso l'espressività delle diverse anime dell'essere umano. Francesca Botti e Davide Cirri di quella prova d'attore di Orlando sono complici e alleati. Accompagnano per mano il personaggio che diventa finalmente persona pur nella sua assoluta solitudine (o forse proprio grazie a essa), convinto di guardare lontano e di riprendere in mano la propria esistenza. Ancora e sempre impreparato all'intensità della vita, di nuovo bambino, di nuovo padre, figlio, spettatore...