Il reportage
Uno degli ingressi del mercato di Baqa'a (servizio fotografico di Sofia Pelliccioti)
Mezz’ora di macchina separa Amman da Baqa’a. Tra la capitale della Giordania e il più grande campo profughi del Paese ci sono appena venti chilometri, un tratto di strada che esce dalla città e segue il profilo ondulato delle colline, tappezzate da cantieri e da case in costruzione. Una distesa di rettangoli giallognoli piantati nel terreno, tutti uguali. Incastrato in fondo a questo spazio brullo ma fortemente antropizzato c’è Baqa’a, una città alle porte della città. Da un lato fiancheggia la Kings Highway 35, l’autostrada che collega Amman con il resto del paese, dall’altro ci sono i terreni agricoli, isole verdi nel giallo della roccia giordana. A domandare in giro «di dove sei?» la risposta è quasi sempre la stessa, indipendentemente che a parlare sia un adulto o un bambino, che sia nato lì o che sia arrivato da grande: qui il tempo è sospeso e la memoria collettiva è un filo che attraversa le generazioni. «Sono palestinese».
Il campo di Baqa’a è stato creato nel 1968 in seguito alla guerra dei Sei giorni tra Israele e Stati arabi, per accogliere i rifugiati palestinesi provenienti dalla Cisgiordania, da Gerusalemme Est e dalla Striscia di Gaza. Dove una volta c’erano tende oggi ci sono case, basse e precarie, costruite dai rifugiati stessi. La condizione di attesa di chi vive a Baqa’a – e spera un giorno di tornare nella propria terra – si riflette nelle abitazioni abbozzate, con pavimenti incompleti e infissi traballanti, ma con muri che proteggono dal freddo. Le case sono ricoperte da graffiti e scritte in supporto alla Palestina. Intrecci di fili scoperti sovrastano le strade polverose, piene di bambini e bambine. Nelle vie periferiche, tra un edificio e l’altro, i pochi spiazzi di terra sono diventati delle discariche a cielo aperto, che pullulano di gatti. Il numero degli abitanti dai 26.000 inziali è cresciuto esponenzialmente: a Baqa’a oggi vivono più di 130.000 persone, stipate in 1.4 kmq di case addossate una sull’altra. Mentre chi poteva andarsene se n’è già andato, nel campo, oltre ai rifugiati del 1967, vivono anche i palestinesi della prima diaspora – quelle famiglie che l’esercito israeliano ha cacciato dalle proprie case già nel 1948 – e i palestinesi arrivati dalla Siria in seguito alla crisi del 2011. A questi si aggiungono anche i lavoratori, i migranti e chiunque non possa permettersi un affitto in città.

I muri delle case dipinti con i simboli e colori della Palestina
Sama è una rifugiata palestinese dalla Siria e racconta di essere venuta in Giordania con la sua famiglia: «La situazione era terribile, siamo scappati da morte e povertà. Al campo almeno abbiamo una casa e ci sentiamo al sicuro. Speriamo di ritornare in Siria, ma ci vorranno anni perché torni ad essere un Paese sicuro. E poi c’è la Palestina – aggiunge – che è sempre nei nostri cuori e nelle nostre menti».
La compressione demografica di Baqa’a rivela la fragilità della Giordania, un paese alleato degli Stati Uniti e dipendente dagli aiuti economici occidentali, ma dalla lunga tradizione di accoglienza delle popolazioni vicine in fuga da guerra e occupazione. Con il 60% della cittadinanza di origine palestinese, in una posizione geografica strategica, l’ambiguità storica della Giordania col tempo è diventata costitutiva e necessaria alla sua stessa stabilità. È considerata l’oasi di pace del Medio Oriente ma nel suo territorio ci sono dieci campi palestinesi, dieci altre Baqa’a sovraffollate e povere: sono luoghi di disperazione e tensione, i punti deboli del regno di re Abdullah II.

Le tende con il tempo sono diventate case, costruite dai rifugiati stessi
Con gli anni Baqa’a è diventato un ecosistema a sé stante e si è espanso in orizzontale fino a toccare l’autostrada, lungo la quale sono sorti molti negozi e attività commerciali. Sedici scuole, due centri medici, un cimitero e varie moschee. Nonostante dal campo si possa entrare ed uscire liberamente, la maggior parte degli abitanti raramente esce, incastrata in una quotidianità che si svolge tutta all’interno del labirinto Baqa’a. Allo stesso modo, non sono molte le persone che da fuori frequentano il dentro. Ce lo confermano gli sguardi curiosi, i «Benvenuti» dei bambini e la domanda che ci viene fatta mentre camminiamo tra i banchi del Suq, il mercato, il cuore di Baqa’a: «Che ci fate qui?». E nel frattempo ci offrono del tè.
Lungo la via principale che divide il campo in due si snoda un labirinto di bancarelle e alimentari coperto da grandi teli colorati che filtrano la luce. Un cielo sbrandellato a fiori e righe, polveroso, che protegge le attività commerciali dal sole levantino. A mano a mano che ci si addentra nel Suq, la sensazione è di camminare nel ventre di un animale. Tanti datteri, una quantità indefinibile spezie, vestiti, voci odori che travolgono negli stretti passaggi. In molti rivendono i prodotti delle fattorie e dei campi coltivati fuori, come Omar, che ha una bancarella di aglio e datteri all’ingresso del mercato: «Sono palestinese, sono nato qui ma vengo da Nablus. Con i prodotti che rivendo – racconta – riesco a soddisfare i bisogni della mia famiglia. Vorrei fare altro nella vita, ma questa è l’unica possibilità che ho, viste le limitazioni che ci sono per lavorare fuori».

Omar da Nablus vende datteri e aglio all'ingresso del Suq
Nonostante il campo abbia una sua economia interna, infatti, i palestinesi – ma questo vale per tutti i rifugiati in Giordania – devono fare i conti con uno status legale che limita loro l’accesso al lavoro e all’istruzione superiore; faticano a trovare un impiego stabile o ad avere prospettive di carriera e sono costretti a lavorare nel settore informale, con stipendi bassi e senza copertura sanitaria. Il problema è il passaporto: mentre i palestinesi arrivati dalla Cisgiordania occupata hanno ottenuto la cittadinanza giordana, chi è nato nella Striscia di Gaza ed è arrivato in Giordania dopo la guerra dei Sei giorni, è considerato straniero. Più precisamente, “residente temporaneo permanente”. Dal 1988 poi la cittadinanza giordana non è più stata concessa a nessun palestinese, e senza un documento provvisorio o un numero identificativo nazionale, non si può aspirare a posizioni nel settore pubblico, si hanno diritti di proprietà limitati e un accesso ridotto a sussidi, università e assistenza sanitaria. In generale, nel regno di Abdullah II sono più di 120 i lavori non accessibili ai non giordani, restrizione che si applica agli “ex-gazans”, così come a tutti i rifugiati che si trovano nel paese, siriani, iracheni, yemeniti, sudanesi ed eritrei.
Sul campo solo sole, niente alberi o spazi verdi
A garantire i bisogni primari di chi vive nel campo è l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite istituita dopo la Nakba del 1948, quando interi villaggi palestinesi furono distrutti e migliaia di civili costretti alla fuga dall’esercito israeliano. Circa 700 mila persone abbandonarono le proprie case, i terreni agricoli vennero rasi al suolo, gli ulivi sradicati. La Nakba – in arabo la Catastrofe – coincide con la nascita dello stato di Israele, e per i palestinesi è una ferita collettiva ancora aperta. Fondata nel 1949, l’UNRWA è nata per offrire assistenza e sostegno agli sfollati, garantendo istruzione, cure mediche e aiuti alimentari nei campi profughi. L’Agenzia opera in attesa di una «soluzione giusta e duratura» che consentirà ai palestinesi il ritorno a casa: «A queste persone era stato promesso di poter tornare in una, due settimane – spiega Shayma Abu Farha, avvocata UNRWA –. Sono passati 77 anni e ancora sono qui che aspettano e conservano le chiavi di casa». La chiave è la memoria materiale del trauma e allo stesso tempo un simbolo di speranza, in molti la tengono legata al collo come una collana.
A Baqa’a Unrwa ha accompagnato la transizione dalle tende alle case in muratura, ha costruito la rete fognaria e si occupa oggi delle strade e della rete elettrica. Chi vive nel campo dipende in quasi tutto dall’Agenzia, che gestisce anche i due centri medici e le scuole. Nelle cliniche viene fornita assistenza sanitaria di base, per tutto il resto, bisogna andare in città. Anche per partorire: le madri nel campo vengono accompagnate nel percorso di pre e post gravidanza, ma il parto si può fare solo negli ospedali pubblici. Nonostante varie campagne di sensibilizzazione, il tasso di nascite a Baqa’a è molto alto e in media nascono circa 170 bambini al mese, da madri che spesso sono ragazze ancora adolescenti. Alla sensibilizzazione si affianca la necessità di educare le famiglie: le 16 scuole Unrwa del campo funzionano su due turni e vanno dall’istruzione primaria fino al diploma. Durante la visita a una scuola femminile, alcune alunne del “Parlamento scolastico” tra i dieci e i tredici anni hanno raccontato in un inglese impeccabile il loro sogno di diventare ingegnere o business women, simbolo di un futuro che immaginano più libero. Nella maggior parte dei casi, però, il percorso scolastico di chi vive a Baqa’a si ferma al diploma superiore, perché le Università giordane sono costose e i sussidi statali insufficienti.

Donne in attesa di una visita al centro medico UNRWA
«L’educazione salva le persone». È successo a Husam Abed, palestinese giordano nato e cresciuto a Baqa’a. Oggi vive a Praga, è attore e direttore del Teatro delle marionette “Dafa”, fondato nel 2015 sulla scia di un progetto di comunità nei campi per rifugiati in Giordania. Mi racconta al telefono la sua infanzia, la sensazione di essere in una bolla: «Non è piacevole vivere in un campo profughi, non c’è privacy, puoi sentire i tuoi vicini da casa tua. A Baqa’a non ci sono librerie, né luoghi di socialità. Solo uno sport club che fa da ritrovo. Il concetto stesso di dipendere dagli aiuti umanitari è umiliante e le persone appena possono se ne vanno. Poi – aggiunge – sei esposto solo a palestinesi. Il primo giordano io l’ho incontrato a Damasco, in Siria, era un mio collega d’università».

Ora di scienze in una scuola femminile UNRWA
A Baqa’a lo stigma sociale e il senso di isolamento si aggiungono alle difficoltà pratiche della vita nel campo: spesso manca l’acqua, i prodotti non sempre sono disponibili, la spazzatura invade le strade e circonda le case. Per quanto oggi sia un luogo meno provvisorio rispetto a quando è nato, qui i bambini crescono immersi in una precarietà sia esteriore e che interiore, con la ferita profonda dell’esilio e la nostalgia per una terra conosciuta solo attraverso i racconti dei nonni. Due temporalità scandiscono la vita nel campo: da una parte la fatica, la resistenza quotidiana, dall’altra una dimensione di attesa, una speranza in sospeso da 70 anni. «Se il posto fisico non c’è sei costretto a trovarlo altrove, nelle storie di famiglia, nella comunità palestinese. Cresci cercando una patria che non hai mai visto», spiega Husam, che della sua infanzia ha fatto un’opera teatrale dal titolo “The smooth life”, in scena dal 2014 e presentata in Italia a giugno all’Opera Prima di Rovigo. «Io mi sento frammentato, ogni posto in cui sono stato mi ha influenzato, ma c’è sempre quel senso di perdita di identità che rimane. Una cosa che mi colpiva da piccolo – aggiunge ripercorrendo i ricordi – era l’insegna all’entrata del campo, che diceva: “Campo d’emergenza per i rifugiati palestinesi”. Quella scritta mi ha sempre dato un senso di temporaneità, nel bene e nel male. Ora siamo nel 2025, Baqa’a esiste dal 1968 ed è ancora in uno stato d’emergenza».
Un graffito di "Handala", il celebre personaggio del fumettista palestinese Al-Ali Naji
Il reportage è stato pubblicato sul numero 7 di "Quindici" del 13 novembre 2025