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Manifestazioni in Iran (foto Ansa)

 

«Una vittoria imminente di Israele? Bisogna prima capire cosa vuol dire vincere in quel contesto. Anche se si arrivasse a un tavolo resterebbero le cause profonde del conflitto». Mentre continuano i bombardamenti su Teheran e Tel Aviv, Massimiliano Trentin, coordinatore del corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali dell’Università di Bologna, analizza le dinamiche che hanno portato all’esplosione del conflitto. Dalla storia recente del Medio Oriente al ruolo ingombrante degli Stati Uniti, dalla rivalità profonda fra Israele e Iran al ruolo dell'Italia.

 

Come si inserisce questa serie di attacchi nella lunga storia di instabilità del Medio Oriente?

«Quello che sta succedendo, a mio avviso, è un passaggio fondamentale di uno scontro che dura ormai da almeno 25 anni, che vede contrapposti Israele ai suoi oppositori nella regione mediorientale. Questo fronte una volta si chiamava Asse della Resistenza e a partire dall'anno scorso è stato smantellato da Israele attraverso l'utilizzo della propria potenza militare sostenuta dalla superiorità militare logistica statunitense».

 

Qual è l’obiettivo di Israele?

«L'obiettivo primario del contenimento o eliminazione di qualsiasi forma di opposizione e rivalità nella regione è sempre e comunque collegato alla questione palestinese, all'occupazione delle terre dei palestinesi e oggi, in particolare, alla questione di Gaza. Quello rimane il conflitto all’origine di tutto, la vera ferita aperta, il resto è una conseguenza».

 

Quindi, semplificando, anche questo attacco all'Iran è funzionale a eliminare uno dei possibili sostenitori della causa palestinese?

«Esatto, la causa palestinese è all'origine della maggioranza dei sistemi di alleanze o rivalità, amicizie e inimicizie della regione. Finché non si risolve per Israele ci saranno sempre degli antagonisti. Inizialmente era Nasser, poi ci sono stati Saddam e Khomeini, oggi c’è Khamenei e domani ci sarà qualcun altro».

 

Dopo i bombardamenti di questi giorni, com’è la situazione sul campo? L’attacco all’Iran è un successo per l’alleanza Israele-Stati Uniti?

«Bisogna prima definire che cos’è una vittoria. È la resa incondizionata del nemico, secondo gli standard della seconda guerra mondiale o della guerra del Golfo del ‘91, oppure è piegare il nemico a un negoziato? La superiorità militare, logistica e tecnologica di Israele e degli Stati Uniti è indubbia, punto. Quanto questo basti per eliminare il nemico, cioè portarlo a una resa incondizionata, è ancora tutto da vedere. È necessario considerare che anche le capacità di resistenza iraniane sembrano ad oggi comunque considerevoli».

 

Su quali basi si potrebbe arrivare a un compromesso quindi?

«Sicuramente uno scenario possibile vedrebbe il ritorno a un tavolo negoziale basato sulla garanzia da parte di Teheran di limitare lo sviluppo del proprio settore nucleare ai soli scopi civili. L'impossibilità di costruire velocemente un ordigno nucleare potrebbe essere un elemento di partenza, ma è importante ricordare che per Israele sarebbe comunque inaccettabile: Tel Aviv ha sempre detto che la ragione ultima della rivalità con la Repubblica Islamica non è solo il nucleare, ma è la Repubblica Islamica in quanto tale».

 

A proposito di negoziati, era previsto un tavolo in Oman fra la Repubblica islamica e gli Stati Uniti, ormai annullato, dedicato al programma nucleare iraniano. Come potrebbero ripartire le trattative?

«Non sappiamo se si potranno aprire dei negoziati sotto le bombe. È uno scenario difficilmente accettabile per l’Iran per questioni di principio ma anche di legittimità politica interna. Sicuramente entrare in trattativa puntando una pistola alla testa dell’avversario rientra nello stile negoziale della Casa Bianca. Erano effettivamente in corso dei negoziati tra Stati Uniti e Iran, e sembra che Washington vi avesse investito notevoli energie. La Casa Bianca voleva un accordo anche in senso di rivalsa nei confronti di Obama e del trattato siglato dalla sua amministrazione, annullato da Trump all’inizio del suo primo mandato. Israele aveva sempre comunicato che non voleva l'accordo, al contrario degli stati arabi, dall'Oman alle Monarchie del Golfo, che negli ultimi anni si erano avvicinati su base negoziale all'Iran. Nonostante questa convergenza fra Usa e stati del Golfo, Israele ha deciso di rilanciare con un'azione militare».

 

Quanti danni stanno facendo i bombardamenti al programma nucleare iraniano?

«Gli attacchi sono stati sicuramente efficaci anche se sembra che, al contempo, non abbiano colpito tutti gli obiettivi. Non sono riusciti a danneggiare l’importante base di Fordow, perché Israele non ha le capacità militari per colpire quella struttura. Solo gli Stati Uniti le avrebbero e un loro attacco diretto, ovviamente, avrebbe delle conseguenze. Ogni volta che il programma nucleare di Teheran ha subito attacchi, e battute d’arresto, è poi ripreso in modo accelerato. È successo anche dopo l'uscita unilaterale di Trump dall'accordo siglato da Obama. Se il cosiddetto regime degli ayatollah riesce a sopravvivere, anche questa volta potrebbe andare così».

 

Chi potrebbe essere un mediatore credibile? Putin potrebbe davvero avere un ruolo?

«La Russia è sempre stata coinvolta in questi negoziati e ha sempre svolto, fino ad oggi, un ruolo oggettivamente di compromesso fra le posizioni delle parti. Se potrà farlo non è dato saperlo perché ci sono tante opposizioni in merito. Anche i paesi arabi stanno tentando di trovare una mediazione. Il tutto sta, in larga parte nelle mani degli Stati Uniti d'America».

 

Qual è il ruolo dell'Italia?

«L'Italia ha tutto da perdere da questa guerra continua. Un ordine regionale basato sull'imposizione unilaterale della violenza genera instabilità e imprevedibilità e fa male a una potenza economica e commerciale che ha interessi in tutto il bacino del Mediterraneo. Questo senza considerare il livello della tragedia umana. L’Italia, tenendo soprattutto conto della postura di questo governo di destra, deve mediare tra queste necessità storiche e la volontà di allinearsi alle posizioni statunitensi e di conseguenza di Israele. Al massimo, potrà ospitare qualche summit nel quale comunque non avrà grande voce in capitolo».