la storia

Gianfranco Fini (foto Ansa)

 

«Il periodo in cui Alleanza Nazionale dà vita al governo con Forza Italia? Un errore che non mi perdonerò mai. Però mi giustifico, e sa perché? Perché c’era un caos anche a sinistra, non esisteva il Partito Democratico di oggi. C’era il Pds erede del Pci, la Margherita erede della Dc. E poi c’era Romano Prodi, il grande federatore. Lo dico con simpatia: solo lui poteva riuscire nell’impresa di unire tutte queste differenze in un partito solo».

Da Bologna inizia la storia umana, politica ed emozionale di Gianfranco Fini. Una storia che si intreccia con le vicende familiari e si unisce a un passato in cui, a torto o a ragione, la speranza e il rifiuto dell’apatia e dell’astensionismo erano il centro, lo stimolo, il presupposto e il risultato di un’idea meritevole di chiamarsi tale. Pur sempre al netto di qualsiasi giudizio tranciante che rischia di condurre al pericolo della dietrologia, del revisionismo sterile, finanche della nostalgia di un qualcosa che forse non c’è mai stato. «Quando ho iniziato a fare politica nel 1969, Bologna, come tutta l’Italia del resto, era profondamente diversa da quello che è oggi. Ho un ricordo molto dolce di quel periodo, perché coincide con la mia infanzia, la mia prima giovinezza. I portici erano un luogo di aggregazione, con un rapporto strettissimo tra edifici e popolazione. Per non parlare della curva Andrea Costa del Dall’Ara, dove si andava a fare il tifo per una squadra che era sempre ai vertici delle classifiche. Sono tifoso fino a piangere».

Così, conversare con Fini, e raccontare in poche righe questa sua storia, richiede di tenere a mente l’indubbio risultato osmotico che, consciamente o meno, porta i figli a plasmare la propria esistenza e il proprio credo a immagine e somiglianza, più o meno accentuata, del sentimento dei padri. E dell’impegno delle madri. Un padre, Argenio, che fu volontario della Repubblica Sociale Italiana, poi iscritto all’Associazione Nazionale dei Combattenti. Una madre, Erminia, figlia di Antonio Marani, presente con Italo Balbo alla marcia su Roma e successivamente organizzatore dei circoli del Movimento Sociale Italiano nell’area emiliana. Un figlio, Gianfranco, il cui nome fu l’omaggio della famiglia a un cugino ucciso dai partigiani nei dintorni di Sasso Marconi.

Nato nel fermento di una città già allora ribelle e originale nelle sue aspirazioni all’anticonformismo e alle idee libertarie, Fini si iscrive a sedici anni alla Giovane Italia, poi confluita nel Fronte della Gioventù, e da lì sarà una scalata nel cursus honorum della politica nazionale. Una scalata ideologica fatta di proposte, di alleanze, di errori umani, di scontri e di pacatezza.

«Bologna era una città monocolore, governata tradizionalmente e da sempre dal Pci. Certo, l’opposizione c’era, ma era un’opposizione istituzionale. Io mi trasferii a Roma con la famiglia e iniziata l’università mi iscrissi al circolo di Monteverde Vecchio del Fronte della Gioventù. La sezione venne bruciata, erano gli anni di piombo, e io in poco tempo diventai dirigente di quello che era un po’ il “gruppo scuola” del Fronte, quello che gestiva i rapporti con i ragazzi dei licei».

Ed è proprio in questo periodo che Fini conosce Giorgio Almirante, il segretario del Movimento Sociale. «Ero abituato a vederlo sul palco, a fare comizi. Il mio impiego proseguì nella direzione nazionale del Fronte e un giorno Almirante convocò nel suo ufficio una delegazione di studenti tra i quali c’ero anche io. Era sorto un problema importante. Nel 1976, il Msi si era spaccato in due, dopo che una parte dei dirigenti, e soprattutto dei giovani, aderì a una formazione chiamata Democrazia Nazionale, di certo non di derivazione neofascista, come suggerisce anche il nome. Almirante, quindi, avviò i lavori per le nomine dei nuovi vertici giovanili del partito, scegliendo Franco Petronio come reggente, con il compito di convocare un’assemblea che sottoponesse una rosa di candidati alla segreteria. Io ero tra quei nomi e Almirante mi scelse come segretario nazionale dei giovani».

Anni complessi, sui quali si sono spese già tantissime parole e ancor più fiumi di inchiostro. Anni di sangue e di attentati, di contestazioni portate all’ennesima potenza. Di violenza e incertezza. «C’erano bombe ogni giorno, feriti, morti. Mi candidai a Roma per entrare in Parlamento. All’epoca c'era una legge regionale molto diversa da quella attuale e che prestava il fianco alle critiche. A mio modo di vedere, però, era migliore di quella che c'è oggi. Voglio dire: ci si candidava, venivano eletti coloro che raccoglievano il maggior numero di preferenze. L'elettore votava sulla scheda il simbolo e poi di fianco metteva il nome del candidato che voleva mandare in Parlamento. Accettai la candidatura e fui tra i cinque deputati eletti per l’Msi».

Un’epoca in cui fisiologicamente e anche giuridicamente la politica era diversa da quella che è oggi. Diversa per interessi, per appartenenza, forse anche per passione. «Guardi, all’epoca la politica uno la poteva giudicare in qualsiasi modo. Però, quella di destra era una politica davvero fatta a destra. Non era un modo né per fare soldi né per fare carriera. Era un grande impegno civile, una passione per alcuni aspetti totalizzante, soprattutto per la destra. Chi era di destra frequentava solo chi era di destra. Gli anni del cosiddetto reciproco disconoscimento di identità. Oggi è un mondo del tutto diverso».

Una politica diversa soprattutto, in fin dei conti, per la presenza massiccia e a volte ingombrante dell’ideologia che secondo Fini «scompare totalmente con la fine della Prima Repubblica. L’ideologia era figlia del dopoguerra, figlia del mondo diviso in due blocchi, per cui o si era liberale-capitalista o si era social-comunista. E poi c’era, in Italia, una piccola quota di pubblica opinione rappresentata dal Movimento Sociale che fino al 1960 ha avuto un ruolo importante nell’elezione di un Presidente della Repubblica e nell’impegno a sostenere alcuni governi di transizione. Nel 1963 la Dc apre per la prima volta le sue porte ad altri partiti e nasce il centrosinistra, con Pietro Nenni, segretario del Partito Socialista, alla carica di vice primo ministro. Negli anni successivi Ciriaco De Mita teorizza l'arco costituzionale, stabilendo che chi non ha votato la Costituzione non è pienamente democratico. L’Msi in Assemblea Costituente non c’era. Fu sempre presente in Parlamento, certo, ma non partecipò mai a coalizioni di governo. Chi votava per l’Msi esprimeva un voto di testimonianza, o se si vuole, di protesta».

Un partito in cui si riconoscevano coloro che, ovviamente, non sposavano né l’ideologia del partito comunista né le oscillazioni dello Scudo Crociato, inespugnabile nella sua presenza ai vertici delle istituzioni repubblicane. «La politica del Msi era una politica di grandi valori. Primo fra tutti l’anticomunismo che per me era viscerale. Ma non era un partito antidemocratico. Il Movimento era contro la partitocrazia, vale a dire contro quella che è una degenerazione pericolosa della democrazia. Significava che i partiti si dividevano tutto, dalla nomina del direttore didattico a quella del ministro. L’Emilia-Romagna è un esempio chiaro di tutto questo. Tranne una breve parentesi, tutte le città, poi le regioni e le province, erano governate dal Pci o dal Psi». Un Partito Comunista che Enrico Berlinguer forse tentò di svecchiare, anche di aprire alle influenze degli altri movimenti nazionali che tendevano al centrosinistra. «Ecco, Berlinguer me lo ricordo quando si alzava dal lato opposto dell’emiciclo di Montecitorio. Parlava ed era chiaro che aveva un progetto e non solo un'identità culturale e politica. Cercava di avere una visione d’insieme del futuro dell'Italia, ovviamente basata sui valori del suo partito. L’epoca delle ideologie finisce quando si sciolgono il Partito Comunista, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. Caduto il Muro di Berlino, poi, la storia cominciò a correre come mai prima d’allora. Esplose Tangentopoli con gli arresti e i partiti sgretolati. A me piace dire che “la valanga che è arrivata a valle e che ha distrutto tutto, a volte quando parte dal vertice della montagna è solo una piccola slavina"». Una valanga che non è tanto quella del disvelamento della corruzione che in quegli anni coinvolse quasi tutti i partiti nazionali, quanto quella della legge elettorale del 1993, «che, per la prima volta, stabilì che i sindaci dovessero essere eletti dal popolo. Io mi candidai a Roma contro Francesco Rutelli, che poi vinse al ballottaggio. La Dc morente prese il 13%, l’Msi il 31%. A Napoli, si candidò Alessandra Mussolini e partì subito l’allarme democrazia: la nipote del duce in lista, una neofascista, e via dicendo». In realtà cosa era accaduto? «Era accaduto che i cittadini non erano più disposti a dare deleghe ai partiti che a torto o a ragione erano sprofondati nella vergogna della corruzione. Devo dire che, in questo, il Pci fu il meno colpito. Formalmente non esisteva più e quando alla Bolognina Achille Occhetto decise di cambiare il nome in Partito Democratico pensi che dolore per il fratello di mio padre che era un comunista convinto».

Il vento così implacabile continuava a soffiare sull’onda del cambiamento e dei passi indietro, delle revisioni e delle precisazioni, tanto che dopo la sconfitta alle amministrative di Roma e Napoli, Fini indice quel Congresso di Fiuggi di cui tanto si è parlato e discusso nel corso degli anni. «Signori miei, dissi. Dobbiamo fare i conti con la storia. Le persone che ci hanno votato, non hanno votato per l’Msi ma per singole personalità politiche che vogliono vedere come forza di governo, non all’opposizione. Dobbiamo dire chiaramente quali sono i nostri valori culturali di riferimento e dobbiamo dimostrare di avere una cultura di governo». Una cultura di governo che porterà Fini, con la sua neonata Alleanza Nazionale, ad allearsi con una forza politica nuovissima e promettente. Che aveva fatto ben sperare. La Forza Italia di Silvio Berlusconi, di cui sarà vicepresidente del Consiglio dal 2001 al 2006 e poi alla presidenza della Camera dal 2008 al 2013. «Se posso sbottonarmi su quello che succede dentro quell’aula? Guardi, mi dispiace dirlo, ma il primo requisito che deve avere chi vuole sperare di diventare parlamentare è dire: “Io sono di tal partito, allora quello che dice il leader lo condivido”. Il livello qualitativo delle aule si è progressivamente ridotto e se alcuni anni fa le scuole di partito preparavano in modo approfondito i futuri rappresentanti della Nazione, oggi probabilmente non è più così. E al confronto ideologico si è sostituito il confronto programmatico. Non ricordo chi l’ha scritto, ma la verità è che “l’ideologia fa sì che l’altro da te sia un nemico, il confronto programmatico fa sì che l’altro sia un avversario”. E la differenza è netta. Oggi, pur essendoci una democrazia dell’alternanza, per tante ragioni il confronto, più che sui contenuti, è sugli slogan».

Tanto che viene da chiedergli come abbia fatto a tapparsi così tanto il naso da non sentire l’odore dell’universo berlusconiano che, volente o nolente, di slogan viveva e prosperava. «Ecco, volevo arrivare proprio lì. Perché vede, politica e propaganda non sono sinonimi. La seconda è certamente indispensabile, perché dopo che hai messo un punto a un progetto devi anche comunicarlo. Una volta, però, si votava per il partito nella sua interezza. Oggi, si dice: voto il partito di Schlein, voto contro il partito di Meloni. Torna il discorso sull’ideologia, oggi sostituita da un programma che il leader ha in mente e che deve per forza di cose rendere fruibile attraverso lo slogan. Il mio rapporto con Berlusconi è durato vent’anni e c’erano dei momenti, all’inizio, in cui il modo in cui intendeva la politica non era solo propaganda. Poi lo è diventata e a noi questo determinava sorpresa, spesso non capivamo. Come dire, “si fa di necessità virtù” e i consensi li raccoglieva eccome. Bisognava anche essere onesti. “Meno tasse, meno tasse, meno tasse”, eppure i voti continuavano ad aumentare». Un periodo storico di profonda transizione, alla ricerca di quel bipolarismo d’oltreoceano che qui in Italia ha sempre funzionato con difficoltà e timore, rischiando di arrestarsi definitivamente al primo giro d’angolo. «Eppure nel bipolarismo ci credevamo. Era nato il Pd e, in assoluta buona fede, ma prendendo una cantonata epocale, io cominciai a pensare vabbè, ma noi possiamo continuare a stare con Forza Italia, An, la Lega. Il mio fratello amico Pier Ferdinando Casini disse: "No, per carità, io non rinuncio allo Scudo Crociato". Con Berlusconi l’errore fu quello di far nascere il Pdl, ma non perché fosse sbagliato il progetto. Fu sbagliato perché per Berlusconi comandare e governare erano sinonimi». Una storia e un ricordo personale che si concludono nell’epoca contemporanea, con il dubbio diffuso che la destra, così come la sinistra, non esista più. E non esiste più neanche la riconoscenza di Giorgia Meloni per un partito, An, che le diede fiducia e che la mise al vertice del movimento studentesco. «Marziale dice che la riconoscenza è il sentimento della vigilia. L’umanità ha radici antiche, diciamo così. Il grande miracolo che Giorgia ha fatto con Fratelli d’Italia, e lo dico senza alcuna ironia, forse non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato il Congresso di Fiuggi, quell’affermazione riferita ai valori della libertà e della democrazia. Valori che nel documento fondativo definimmo, con un termine desueto, conculcati, ovvero oppressi, dal fascismo. Contano i fatti. La destra non solo esiste ancora, ma, dopo la nascita nel 1946 come Movimento Sociale e la svolta nel 1995 con An, adesso è nella terza fase della sua vita».

 

 

L'articolo è tratto dal Quindici del 12 giugno 2025