Dc-9 Itavia

Copertina del libro “La cultura del silenzio”. Foto concessa dall'autore Giorgio Gjylapian
Ustica. Il libro “La cultura del silenzio” (Pendragon, 2020), firmato dall’avvocato Giorgio Gjylapian, descrive con convinzione uno scenario diverso rispetto alle ipotesi del missile e della bomba, quelle attorno alle quali da 45 anni si cerca una verità non ancora definita sulle possibili responsabilità di aviazioni della Nato. Come il dottor Amelio della Procura di Roma, sposa la tesi dell’interferenza di scia, impropriamente detta “near collision”, ma riferendola a diversi accadimenti. Alla luce degli esiti dell’ultima inchiesta, un lustro dopo il volume viene presentato per la prima volta domani 4 giugno, alle 21, alla Casa di Quartiere Giorgio Costa (CostArena) in via Azzo Gardino 44. L’autore di questo testo, che quel 27 giugno 1980 perse due familiari, lo zio Guelfo Gherardi e la compagna Antonella Cappellini, spiega il suo lavoro a “InCronac@”.
Alla presentazione saranno presenti anche Marco D’Orazi, presidente di sezione civile al Tribunale di Bologna, dottore di ricerca in materie penalistiche e presidente della Commissione di disciplina per i notai dell’Emilia Romagna; Antonio Bagnoli, editore e fondatore della casa editrice Pendragon; Carlo Alberto Nucci, ingegnere elettrico italiano, professore ordinario di Sistemi elettrici per l’energia all’Università di Bologna e direttore dell’Electric Power Systems Research.
Perché la sua ipotesi, la “near collision” (o meglio sarebbe dire “wake turbulence”) fra un jet militare e il volo di linea dell’Itavia Bologna-Palermo, a questo punto resta ancora in piedi?
«Ho sposato la teoria della turbolenza di scia, impropriamente chiamata “quasi collisione”, nello scenario di un’esercitazione militare e non di una vera battaglia aerea. Speravo di venire smentito dalle nuove indagini, perché la mia verità non piace neanche a me. Ma la recente richiesta di archiviazione della Procura di Roma mi conferma nelle mie convinzioni. Per questo ritengo che sia giusto insistere».
Da quanto si occupa della vicenda di Ustica?
«Sin dal Giorno 1. Fui io, della mia famiglia, ad andare a Palermo per l’identificazione dei corpi. Mio zio non lo trovarono, mentre la sua compagna fu la prima a essere rinvenuta. È lei quella della foto dei primi interventi dei soccorsi: il suo corpo galleggiava sul Tirreno. Sono stato anche tra i fondatori dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, ma mi sono allontanato quando i membri hanno sposato la teoria del missile. A me non convince perché non ci sono tracce tipiche di un’esplosione».
Perché esclude che si sia trattato di un episodio di guerra aerea?
«È inverosimile che ci fosse un Mig libico in volo sui cieli di Ustica quella sera. Se così fosse, avrebbe dovuto attraversare l’Italia da est a ovest, sperando di potersi nascondere sotto un aereo civile, una volta giunto sul Tirreno, e senza venire mai individuato dalla nostra Aeronautica lungo il tragitto. E tutto questo quando sarebbe potuto passare sopra i Balcani e le acque extra-territoriali. Inoltre, è improbabile che i piloti italiani in volo quella sera abbiano lanciato un segnale d’allarme, il cosiddetto squawk, per poi lasciare il terreno libero ad americani e francesi. Il tutto senza alcuna valutazione da parte dei massimi gradi dell’Aeronautica o della politica».
Cosa accadde allora?
«Il Dc-9 è finito in mezzo a un’esercitazione di un attacco simulato all'aeroporto di Marsala, operazione nota come Synadex, che doveva iniziare alle 21 esatte, cioè pochi secondi prima della sparizione del velivolo dai radar. L’esercitazione consisteva in un attacco simulato, cui gli avieri a terra dovevano reagire. Si inseriva una cassetta con tracce fasulle a cui si aggiungevano aerei veri in esercitazione di attacco, come in un primitivo videogioco. La mia ipotesi è che il finto aggressore si fosse posizionato sotto l’aereo civile perché non doveva farsi vedere fino all’ultimo. Quando il Dc-9 iniziò a scendere verso Palermo Punta Raisi, con leggero anticipo sul previsto, l’aereo militare – con tutta probabilità un F-104, detto “bara volante”, perché velocissimo ma poco manovrabile, simile a un missile – lo vide e accelerò. I fumi arrivarono al Dc-9, il quale non resse la turbolenza di scia, disintegrandosi in volo. È la teoria della cosiddetta “quasi collisione”, minoritaria per la commissione tecnica del giudice istruttore Rosario Priore, ma completamente accolta dal pubblico ministero Erminio Amelio, che ha condotto l’indagine riaperta a seguito delle dichiarazioni dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga (che parlò di un missile di un jet francese) e che la Procura di Roma ha chiesto di archiviare per l’assenza di nomi di possibili indagati».
E cosa si può fare oggi per smuovere la situazione?
«Continuare a indagare. Si dovrebbero sentire tutti gli imputati dell'Aeronautica militare che all’epoca si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Oggi sono tutti in pensione, non sono più soggetti al segreto militare. Potrebbero parlare. E poi si dovrebbero risentire gli investigatori del giudice istruttore».
Si può dunque essere ottimisti?
«Non credo, dopo Ustica c’è stato il disastro di Ramstein nell’agosto del 1988, il famoso incidente delle Frecce Tricolori su cui mi dilungo nel libro. La verità sarebbe molto dolorosa».