Femminicidio

L'avvocata Maria "Milli" Virgilio (foto concessa dall'interessata)
«Le firme dell’appello sono in aumento tra le colleghe penaliste. La bozza di legge, nel suo stato attuale, è inapplicabile». Maria "Milli" Virgilio riprende con forza e arricchisce le dichiarazioni critiche rilasciate all’alba dell’appello firmato da ottanta penaliste bolognesi contro il ddl che mira a rendere un reato autonomo il femminicidio, proposto dal Governo.
L’appello presentato ieri ha suscitato scompiglio nell’opinione pubblica. Cosa ne pensa delle reazioni che si sono susseguite?
«Ho visto qualche intervento, ma alcuni li ho trovati ciechi, affrettati, verso i quali dissento totalmente. Ho già espresso perplessità per quelle posizioni che difendono l’ergastolo come pena fissa, figuriamoci per chi vuole rinchiudere in carcere le persone e buttare via la chiave».
Sul possibile impatto che una norma simile avrebbe sul nostro ordinamento, invece?
«Se dovesse mai entrare in vigore, la legge non avrebbe nessun effetto sugli attuali casi di cronaca, come quello di Afragola, per esempio, perché è inefficace, a stento applicabile. E pure selettiva, visto che si baserebbe su requisiti molto sottili e difficilmente ravvisabili. E chi ne trarrebbe vantaggio? I figli di papà che si possono permettere avvocati preparati che elaborano strategie difensive cavillose, basandosi su questa ambigua zona grigia, il che si risolverebbe in una paradossale diminuzione delle condanne per femminicidio».
Lei ha parlato di un “approccio disomogeneo” della giurisprudenza penale in fatto di genere e discriminazione. Può dirci di più a riguardo?
«La disomogeneità si riferisce al concetto di genere, il vero termine col quale il diritto penale deve misurarsi, non al femminicidio. Mi riferisco alla parola “genere” così com’è definita dalla convenzione di Istanbul, cioè ancorata a ruoli culturali e sociali riconosciuti, perché altrimenti risulta difficile distinguere, tra i vari casi, quali rientrino in un reato e quali in un altro. Non si capisce perché bisognerebbe riservare un trattamento particolare alle donne e non alle altre categorie discriminate per il loro genere, come il mondo lgbtqia+. Si tratterebbe di una discriminazione anticostituzionale».
Non crede che l’introduzione del reato di femminicidio possa rafforzare le tutele e la protezione delle donne che hanno subito violenze di genere?
«Io penso di no, basta vedere gli altri reati resi autonomi: prima lo stalking, poi le mutilazioni genitali femminili, il matrimonio forzato e infine la diffusione di materiale sessualmente esplicito. Se contiamo anche le aggravanti per violenza sessuale, abbiamo delle sovrapposizioni di interventi frammentari, mentre avremmo bisogno di politiche organiche, sia preventive che penali. Tutto questo bisogna farlo tramite la rivalutazione e la modifica delle norme vigenti attraverso la lente dell’analisi di genere».
Il Grevio (Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne del Consiglio d'Europa) ha esortato l’Italia ad adottare una normativa specifica per il femminicidio. Alla luce della denuncia sua e delle sue colleghe, come mai l’Europa spinge per l’approvazione di una legge simile?
«Ribadisco: adottare una normativa specifica per il femminicidio non vuol dire creare una legge sul femminicidio, ma creare politiche, anche penali, di genere. Il Grevio è l’organismo europeo attuativo della convenzione di Istanbul, e non utilizza mai la parola femminicidio, ma prevede l’attivazione di politiche di genere.
L’indicazione a normare il fenomeno, invece, compare nei report dell’Onu perché lì – a differenza della bozza di legge – il femminicidio è visto in chiave antidiscriminatoria, dunque secondo il concetto di genere ampliato a tutto lo spetto lgbtqia+, senza limitarsi alla distinzione uomo-donna».