Palestina

Jabr

La psicoterapeuta e psichiatra palestinese Samah Jabr (foto di Tommaso Sfregola)

 

Quando dal cielo piovono incessantemente le bombe la mente vacilla, si deteriora. Il cervello umano è una macchina complicata anche in tempo di pace. Lo sa bene Samah Jabr, psicoterapeuta e psichiatra palestinese di Gerusalemme Est che in guerra, tra la morte e le urla di dolore, lavora sui fragili meccanismi di questa macchina delicata. E cura le paure della guerra sulle case.

In arabo la parola sumud significa “perseveranza”, “fermezza”, “resistenza” o “resilienza”. Non riguarda apertamente la lotta armata, anche se è strettamente legata alla volontà individuale e collettiva di opporsi all’occupazione israeliana. Per i palestinesi è un simbolo nazionale, un valore culturale che si trasforma in pratica psico-sociale e strategia politica. È una parola difficilmente traducibile, che può fare riferimento alle modalità con cui una comunità si prende cura dei suoi membri, anche dal punto di vista del benessere psichico.

Quando i bambini muoiono appena nati, le donne partoriscono senza anestesia e la depressione colpisce la quasi totalità della popolazione, l’unica strada per resistere e sopravvivere è una terapia comunitaria, un coinvolgimento di tutti i membri della società, una reazione contro l’oppressione, il ritorno collettivo alla spiritualità per sopportare l’orrore.

Per Samah Jabr, invitata a partecipare al seminario “Witnessing in contexts of oppression: the ethical and therapeutic roles of mental health professionals facing colonial trauma” (“Testimoniare nei contesti di oppressione: i ruoli etici e terapeutici dei professionisti della salute mentale di fronte al trauma coloniale”) lo scorso venerdì a Bologna, la resistenza del suo popolo non può essere svilita e condannata perché talvolta intraprende la strada della violenza. Sull’odio che provano i palestinesi per Israele la sua versione dei fatti è questa: «Cosa c’è di così sbagliato nell’odio? L’odio è un’emozione e ha un perché, una ragione profonda. È l’impunità nei confronti dell’ingiustizia che rende necessario l’odio. Se non fossimo stati abbandonati dal mondo, non avremmo avuto bisogno della violenza per difenderci. Tutti siamo capaci di violenza in situazioni di estremo pericolo».

Per Samah Jabr, che è stata anche direttrice dell’unità di Salute mentale del ministero della Salute palestinese, i palestinesi vivono un vero e proprio trauma dell’occupazione. Un trauma transgenerazionale che deriva dall’alienazione della propria terra da parte di Israele, giudicata intenzionale e indiscriminata. Per lei, che si è laureata all’università Al-Quds di Gerusalemme e si è specializzata in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, essere psicoterapeuta e psichiatra in Cisgiordania (unica donna tra i ventidue psichiatri della West Bank) e a Gaza vuol dire vivere a contatto con la realtà drammatica di questo trauma. «Le donne che partoriscono – spiega – sono affette da depressione e ansia. Esprimono un senso di colpa per aver messo al mondo degli esseri umani vulnerabili in una realtà terribile». Diventa importante agire a livello comunitario, andando per le strade e portando avanti attività di ascolto, supporto, prevenzione del suicidio.

E allora appartenere a un gruppo diventa terapeutico, parlare con altre madri che hanno perso un figlio, cucinare con loro e ascoltarsi diventa una strada per sopportare il trauma. La società palestinese si stringe, si dà conforto e sostegno. Gli insegnanti riuniscono i bambini e provano a spiegargli cosa succede, loro disegnano. E intorno l’orrore.

Samah Jabr ha pubblicato da poco il suo ultimo libro, “Il tempo del genocidio. Rendere testimonianza di un anno in Palestina”, con la casa editrice “Sensibili alle foglie”. Con lo stesso editore ha pubblicato “Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione” (2019) e “Sumud. Resistere all’oppressione” (2021).