Basket

La Fortitudo durante una fase di difesa in campo (foto Ansa)
A Bologna il derby non è mai stato soltanto una partita di pallacanestro: è una tradizione che ha diviso la città in due anime ardenti e inconciliabili. Virtus contro Fortitudo non rappresenta solo una rivalità sportiva: è lo specchio fedele di una storica contrapposizione culturale e sociale. In una città che respira pallacanestro, il derby rimane un evento sacro, un appuntamento che trascende il calendario e si imprime nel cuore dei suoi abitanti. Qui non esistono mezze misure: si è o virtussini o fortitudini. Una scelta, o forse un destino, che si abbraccia senza riserve, perché al cuore non si comanda. È un’appartenenza che ti accompagna per tutta la vita, scolpendo la tua identità come un marchio indelebile. È l’eterna battaglia tra il bene e il male, dove entrambe le fazioni si sentono nel giusto, fiere e irriducibili, ognuna convinta di incarnare l’anima autentica di Bologna.
Per capire davvero cosa rappresenti il derby, nonostante l’ultimo risalga al 2022 a causa della retrocessione in Serie A2 della Fortitudo, bisogna fare un passo indietro. Anzi, uno step back, come si direbbe in gergo cestistico, fino al 15 dicembre 1966. È in quella data che si scrive il primo capitolo di una rivalità destinata a infiammare i cuori bolognesi per decenni: Virtus contro Fortitudo, V nere contro l’Aquila biancoblù. All’epoca, la Virtus aveva già cucito sul petto sei scudetti e si muoveva sicura nel panorama della Serie A. La Fortitudo, invece, era appena rinata dalle ceneri della Sant’Agostino e si affacciava timidamente alla massima serie. Ma timida lo fu solo sulla carta. Quella prima, storica sfida, vinta dalla Virtus 73 a 66 con 30 punti di un leggendario Gianfranco “Dado” Lombardi, diede infatti il via a qualcosa di più grande di una semplice partita: la nascita di un mito. Quella differenza di sette punti, quasi beffarda, sembrò il preludio a una storia spesso scritta a tinte bianconere. Con la Virtus destinata a fare incetta di trofei e la Fortitudo a rincorrere, ma con un’arma diversa: il cuore della sua gente.
Se la Virtus poteva vantare un palmarès scintillante, non meno iconica fu la risposta della Fortitudo, che arrivava dagli spalti. La Fossa dei Leoni, con le sue coreografie e un tifo che non ha mai conosciuto resa, ha costruito un’identità fondata sul senso di appartenenza, al di là dei risultati. Uno spirito che ha reso il derby qualcosa di più di una contesa sportiva: una vera e propria battaglia culturale. «Dietro la Virtus c’era la Bologna bene, quella dei fighetti», ricorda Enrico Franceschini, giornalista di Repubblica, che negli anni ’70 ha vissuto in prima linea quell’epoca d’oro del basket italiano. «Mentre il pubblico Fortitudo era perlopiù proletario». Uno stereotipo, certo, ammette lui stesso, ma con un fondo di verità. Con il tempo, le differenze sociali si sono attenuate, ma la passione viscerale per il derby non ha mai perso intensità.
A confermarlo è Marco Bonamico, uno dei pochi ad aver indossato entrambe le maglie. «A Bologna la gente pretendeva, con la “P” maiuscola, la vittoria nel derby. Era una competizione accesa, ma sana. Anche se qualche insulto ogni tanto scappava». Bonamico ricorda anche un clima molto diverso da quello attuale: «I giocatori uscivano insieme, si prendevano in giro. Nulla che oggi non farebbe subito scalpore». Lui stesso, cresciuto nelle giovanili della Virtus, passò alla Fortitudo senza sollevare scandali. Un passaggio oggi impensabile. Basti pensare a Marco Belinelli: dopo aver vinto lo scudetto con la Fortitudo, nel 2007 partì per l’NBA giurando fedeltà eterna ai colori biancoblù. Ma al suo ritorno in Italia, nel 2020, fu la Virtus ad accoglierlo a braccia aperte. Un affronto che i tifosi Fortitudo non gli hanno mai perdonato.
E chissà come l’avrebbe presa Nino Pellacani, icona del tifo biancoblù negli anni ‘80 e primi anni ‘90, diventato celebre per le sue t-shirt provocatorie. «Odio il brodo», recitava una, in riferimento allo sponsor Knorr che campeggiava sulla maglia della Virtus. Un’altra, diventata leggenda, mostrava un alfabeto privo della lettera “V”. «Dei veri colpi di genio», ricorda il cronista Alessandro Gallo, testimone privilegiato di quell’epoca.
Oggi, a quasi 60 anni da quel primo incrocio, il derby di Bologna continua a vivere nella memoria, sospeso tra nostalgia e rivalità eterna. Perché, in fondo, non è mai stato solo basket. È appartenenza. È passione. È Bologna. E lo sanno bene anche i protagonisti più recenti, che quell’atmosfera unica l’hanno respirata sulla propria pelle. Come Daniel Hackett, playmaker della Virtus, che ha disputato un solo derby ma ne conserva un ricordo vivido: «È stata un’esperienza che mi ha colpito in modo positivo. Le coreografie di entrambe le tifoserie erano impressionanti, e ovviamente quella della Fortitudo, giocando in casa, aveva un impatto particolare: la loro curva fa davvero impressione. L’atmosfera, gli sfottò, il clima di massima rivalità ma anche di goliardia… tutto contribuisce a rendere quell’ambiente unico».
Per un veterano del basket europeo come lui, anche solo assistere a questa tradizione significa entrare in contatto con qualcosa che va oltre lo sport: «Per me, esserci da tifoso della pallacanestro è stato qualcosa di speciale».
Un’emozione condivisa anche da Gabriele Procida, ex guardia della Fortitudo, che ha vissuto il derby con l'entusiasmo di un giovane pronto a lasciare il segno: «È sempre stato qualcosa che non vedevo l’ora di giocare: l’atmosfera, tutto quanto. Peccato per il Covid, che ha un po’ limitato l’ambiente. Però, sia al palazzetto della Virtus, sia soprattutto al nostro, quello della Fortitudo, è stato clamoroso».
Anche se il risultato non premiò la sua squadra, il ricordo resta indelebile: «Entrambe le partite le abbiamo perse, ma sempre all’ultimo, contro una Virtus che quell’anno era nettamente superiore. Eppure, abbiamo sempre lottato tantissimo. I tifosi hanno fatto delle coreografie incredibili. Mi ricordo il derby di ritorno al PalaDozza: c’era il limite del 60% di capienza, ma il palazzetto era completamente pieno, anche sulle scale, non c’era un posto libero. Le coreografie, l’energia, tutto... è stata un’emozione pazzesca. Una delle partite più belle che abbia mai giocato».
Perché il derby di Bologna non ha mai lasciato indifferenti. Ti entra dentro, ti segna, ti resta. Come un ricordo che non sbiadisce. Come una scintilla che accende l’anima di chiunque abbia messo piede sul parquet o sugli spalti almeno una volta nella vita. Come quel gioco da quattro punti di Sasha Danilovic. Dulcis in fundo, per Mario Martini, ex giocatore della Virtus, il derby del 1976 fu una partita chiave per il campionato: «Ero l’ultimo della rotazione, quindi non certo uno dei protagonisti in campo. Ma successe qualcosa di speciale. Massimo Antonelli, che oltre a essere un mio grande amico era il tiratore principe della Virtus, quella sera non riusciva proprio a fare canestro. A un certo punto, durante un timeout, Dan Peterson fece una cosa insolita: lasciò parlare me. Mi rivolsi ad Antonelli, lo spronai, lo caricammo insieme. Risultato? Da quel momento fece 9 su 9 al tiro. Andammo ai supplementari e alla fine vincemmo».
Infine, per Walter Fuochi, firma storica di Repubblica e grande cultore di basket, oggi non si sentono più quei boati che una volta esplodevano quando l’altra squadra perdeva. «Almeno, io non li ho più sentiti al palazzetto della Virtus», osserva. «Non so se accada ancora a quello della Fortitudo, ma ormai sono cinque o sei anni che le due squadre vivono su binari separati, e questa distanza si avverte. Dopo il Covid, la Fortitudo è retrocessa, mentre la Virtus si è stabilita ai vertici: finali scudetto, partecipazione all’Eurolega... le loro strade si sono divise in modo netto». Un tempo, bastava che la radio annunciasse una sconfitta della Fortitudo, e la Virtus esplodeva in un boato, come se fosse stato segnato un canestro decisivo.
Eppure, nonostante vittorie, sconfitte, trofei e lacrime, il derby di Bologna resta un legame indissolubile: un filo rosso che unisce passato e presente, rivalità e passione, nel cuore pulsante della città. Ogni incontro, ogni emozione, ogni singolo momento vissuto in quel palazzetto è un capitolo di una storia che non conosce fine. Perché, anche quando la sirena segna la fine della partita, il derby continua a vivere dentro chi l’ha vissuto. Un ricordo che non si spegne mai, ma che anzi si alimenta, rinnovandosi, a ogni nuova sfida. Perché a Bologna, essere parte di questa rivalità significa far parte di qualcosa di più grande: un’identità, una tradizione, un amore senza confini.
L'articolo è tratto dal Quindici n.3 del 15 maggio 2025