concerto

La tappa bolognese, la prima, del tour di Alessandro Mahmood, sarebbe un’occasione per parlare non tanto di musica, che a dirla chiara e tonda, è relegata sul palco a una miniband di batteria e tastiere, dominata e compressa dalle sequenze preregistrate e diffuse da una scheda audio di un computer. E sembra strano, perché, più che parlare di musica, appunto, sarebbe un’occasione per riflettere su un fenomeno che l’artista milanese di origine egiziana sembra perseguire consciamente e coscientemente con tutte le sue energie. Il fenomeno della ipersessualizzazione e dell’ostentata erotizzazione di un’immagine. In questo caso la sua.

Ma la sede non è quella adatta, quindi parliamo di musica che è cosa migliore. E parliamo del pubblico che, generoso come sempre, accoglie Mahmood tra applausi, gridolini di giubilo, sbracciamenti e centinaia, migliaia di smartphone puntati contro la scena. Un tappeto di schermi che fotografano, registrano clip e reel, videochiamate, piccoli ricordi effimeri di discutibile qualità audio e video. E intanto gli occhi, quelli veri, poco vedono, così concentrati sulla regolazione della luminosità, dell’esposizione e dello zoom dell’appendice elettronica di una, dieci, cento, mille mani. Alla ricerca perduta dello scatto migliore, uno spauracchio e un punto critico per chi quelle foto, in un’arena con 15.000 persone che giustamente ferme non stanno, le deve fare per professione.

Il palasport si trasforma in una mega discoteca, con i pezzi più movimentati del cantante che scaldano gli animi e i copri degli spettatori, e quelli più intimi, come la bellissima “Brividi”, cantata con Blanco a Sanremo 2022 e vincitrice della kermesse, eseguita con un arrangiamento minimalista al pianoforte (campionato) e intervallata dai cori del pubblico che risaltano la voce poco “autotunnizzata” di Mahmood.

Il corpo di ballo di soli uomini (tutti più bassi del cantante) che lo circondano, di nero vestiti e in contrasto con i lustrini e gli svolazzanti veli dorati e luccicanti di Mahmood, su dalle scale della scenografia e poi di nuovo giù, sulla passerella che si allunga nel parterre e che avvicina l’idolo ai suoi idolatri. «Se mi firmi questo cartellone mi tatuo il tuo nome», grida una fan attraverso uno striscione che Mahmood vede. «Ne sei così sicura?», e fa salire sul palco un’altra ragazza che scoppia in un pianto liberatorio, con l’immaginabile delusione della minacciosa amante dei disegni epidermici, perché, si sa, l’amore è per sempre.

Di nuovo il ritmo, i balli, qualche accenno di pogata, “Ra Ta Ta”, “Tuta gold” (i tanti bambini sugli spalti aspettavano solo questa), la chiusura con “Soldi”, con un Mahmood che esplode di energia e a cui, oltre alla bella voce, non manca una certa prorompente dose di prestanza fisica, o per dirla senza arzigogoli, un certo qual sempre apprezzato sex appeal. Che però fa di tutto per esasperare.

Ed è vero, ognuno ha ancora, Dio ce la preservi, la libertà di mostrarsi come meglio crede, in tenuta da palombaro, in vedo/non vedo, seminudo. Nudo. Libero di rilevare e rilevarsi negli ammiccamenti che preferisce, nei movimenti e nelle oscillazioni del bacino che più gli consentono di essere al centro esatto di quello che vuole essere. E dell’immagine di sé che vuole trasmettere.

Il rischio che corre Mahmood, sotto i riflettori che esaltano il suo corpo nudo e lucido, il petto scoperto velato e seminascosto da gioielli applicati direttamente sulla pelle, i pantaloni rossi di seta che chiamarli tali è un insulto alla elementare e sempre valida differenza tra calzoni e mutande, le espressioni da climax e da punto di non ritorno; ecco, il rischio che corre Mahmood è quello di diventare definitivamente vittima di quelle apparenze ed equivoci che lui crede di dominare, nell’illusione tipica di quel carnefice che non fa altro che darsi ripetutamente la zappa sui piedi. Di oscurare, al netto di qualsiasi farisaismo, quello che Mahmood probabilmente sa fare meglio. Fare musica, con tutti gli onori e gli oneri del caso.