Solidarietà

L'ingresso della Caritas in Via Santa Caterina (foto di Michelangelo Ballardini)
C’è un’idea che, come un filo rosso, collega tutte le azioni della Caritas bolognese fin dalla sua fondazione e tutte le sue sedi, dagli uffici di Piazzetta Prendiparte al rifugio per senza dimora di Via Santa Caterina. Sono entrambi luoghi che dall’esterno possono sembrare insignificanti, piccole porte molto semplici. La prima passa inosservata, trovandosi a pochissimi metri dalla Torre Prendiparte, che attira su di sé tutte le attenzioni di un passante. La seconda è un’apertura stretta nel lungo e alto muro di mattoni che occupa gran parte del lato est della via, facile da perdere tra parcheggi e bidoni. Dentro entrambe però c’è un mondo di storie, vite, ascolto, umanità. Un’idea riassumibile nelle parole «Questo è più di un luogo fisico. È anche una dimensione, di incontro, di relazione, di aiuto». La frase è di Beatrice Acquaviva, vicedirettrice della Caritas diocesana, ma potrebbe averla detta uno qualunque dei volontari o dei dipendenti dell’associazione. Il percorso per tutti coloro che si rivolgono alla Caritas è sempre lo stesso e parte dalla volontà di essere aiutati, di varcare quelle piccole porte. Non è mai l’organizzazione a cercare le persone, sono loro a dover trovare il coraggio e il desiderio di essere seguiti. Vengono a sapere dei servizi che possono ricevere soprattutto attraverso il passaparola, o vengono indirizzati da centri sociali e parrocchie.
Il primo incontro a Santa Caterina è quello con il centro d’ascolto, che anche architettonicamente si trova per prima cosa, a destra dopo l’ingresso. Simbolicamente sta anche fuori dalla porta che conduce al corridoio da cui si accede a tutte le stanze dei servizi, sopra la quale si legge la scritta “You’ll never walk alone”, non camminerai mai da solo. Ci sono un centinaio di centri d’ascolto parrocchiali racconta Elisabetta, che si occupa di coordinarli, oltre ai centri diocesani più grandi. La persona che vi si rivolge viene invitata a raccontare il proprio problema. L’operatore cerca di capire quali siano i bisogni più immediati, quali quelli latenti e di quali risorse o reti sociali disponga. L’obiettivo è quello di andare oltre l’assistenzialismo, di creare col bisognoso un rapporto di fiducia che porti a un percorso il cui fine ideale è l’indipendenza. Marco, uno degli operatori del centro di via Santa Caterina, descrive il suo lavoro come un rapporto genitore-figlio: «Non mettiamo mai i soldi in mano a un nostro ospite. Se per esempio gli serve la ricarica del telefono, gliela facciamo noi. A volte però facciamo dei piccoli test, diamo il denaro per una spesa specifica e vediamo se viene effettivamente usato allo scopo, valutiamo se sono affidabili». Un metodo usato per mantenere il rapporto di aiuto e non divenire mero sportello a cui rivolgersi nei momenti peggiori è quello di dare appuntamenti agli utenti. La tessera della mensa è uno di questi mezzi: va richiesta al centro e poi rinnovata ogni due mesi, obbligando la persona a ripresentarsi e a rispondere ad alcune domande sulla propria situazione. Ovviamente non tutti divengono frequentatori abituali dei servizi. Marco spiega che il numero di persone che popola il centro assiduamente oscilla fra duecento e duecentocinquanta, ovviamente con alcune che nel tempo si allontanano e altre che arrivano. «Sono pochi quelli che vogliono effettivamente uscire dalla condizione di senzatetto» aggiunge. Tra i nuovi ospiti che devono richiedere la tessera mensa c’è Shoaib Hamed, seduto su un alto sgabello nella sala d’aspetto. Pakistano, ventisei anni. Da sei è in Italia e da due è senza dimora. Viveva a Sialkot, nel nord-est del Pakistan, che ha lasciato per sfuggire dalla violenza e dalla criminalità che ogni giorno mettevano in pericolo la sua incolumità. Ha camminato con un gruppo fino a Teheran, poi sempre a piedi fino in Turchia e poi Grecia, Bulgaria attraverso la rotta balcanica ed è infine arrivato in Italia. Sono quasi 7000 chilometri. Era riuscito a entrare in un progetto di accoglienza che però è finito e dal centro per l’impiego nessuna risposta. Racconta che a Bologna non c’è neanche una comunità pakistana che possa aiutarlo. «Vorrei lavorare, stare bene, aiutare la mia famiglia» dice.
Ricevuta questa specie di battesimo conoscitivo si entra dove non si cammina soli, svoltando a sinistra in un corridoio. Ci sono porte su entrambi i lati, da una vengono voci e risate. Dentro alcuni barbieri e parrucchieri stanno tagliando capelli e barba a uomini e donne che ne hanno fatto richiesta. Un ragazzo di colore molto alto a lavoro finito si alza dalla poltroncina e improvvisa un ballo di soddisfazione tra gli applausi degli altri. Più avanti il corridoio finisce in una grande stanza brulicante di persone. Qualcuno gioca a carte, altri si riposano semplicemente su una sedia, un capannello è assiepato intorno a un calciobalilla, in un angolo c’è un pianoforte. A un tavolo insieme a due donne c’è un uomo anziano che sta disegnando. Non vuole essere identificabile in nessun modo, quindi niente nome o foto. Si fa chiamare “il Pittore”. Da otto anni frequenta la Caritas e si è affezionato ai volontari e ad altri ospiti. Non ha parenti stretti, vive in una stanza a casa di un amico e per non pesare troppo economicamente su di lui mangia alla mensa. Per vent’anni è stato un impiegato, dieci anni fa il licenziamento, che l’ha portato a decidere di essere troppo stanco per cercare un nuovo lavoro di quel tipo, preferendo dedicarsi alle sue vere passioni: disegno e pittura. Ha un piccolo giro di commissioni, fatto di amici e conoscenti che gli chiedono di trasformare foto in piccoli quadri. Non gli basta per vivere, ma non rinnega quella scelta, si descrive come più curioso e entusiasta nei confronti della vita; «Io oggi mi piaccio e non sono mai stato così bene» confida. Il Pittore è italiano, bolognese. I dati raccolti da Caritas stessa sulle persone assistite nel 2024 raccontano di un aumento generale di ospiti, ma il più significativo è proprio quello degli italiani. Sono soprattutto persone che un lavoro ce l’hanno, ma con il quale non riescono ad arrivare a fine mese. Sono stati 3.848 gli occupati che si sono rivolti alla Caritas nel 2024, quasi il doppio dell’anno precedente e mille più del 2022. La voce sui bisogni con il numero più alto è “reddito insufficiente”. La seconda e la terza sommate, “disoccupazione” e “nessun reddito”, non arrivano a fare i numeri della prima. «Le spese sanitarie e per gli affitti sono aumentate e il welfare è diminuito» spiega Beatrice Acquaviva. Basta sempre meno per cadere sotto la soglia della povertà: una pensione che non è più sufficiente per pagare tutto, padri divorziati che tra alimenti e la ricerca di una nuova casa non riescono a far tornare i conti, un licenziamento. «Gli italiani hanno generalmente reti sociali più solide di uno straniero a cui potrebbero rivolgersi, ma è anche più forte lo stigma, la vergogna di dover ammettere la propria condizione» conclude.
Alle 17 la sala comune si svuota, tutti si spostano in mensa per il primo turno della cena. In fila con la tessera, ognuno ritira il suo piatto e va a sedersi. È una stanza più piccola di quella ricreativa, pulita, luminosa. Un graffito con le parole chiave della Caritas decora l’apertura che collega le cucine alla sala principale. A coordinare le attività dei molti volontari che sciamano avanti e indietro tra la i tavoli e la cucina è Franca. La mensa della Fraternità, ci tiene molto a sottolinearne il nome, esiste da 47 anni e sono 47 anni che Franca partecipa alla sua organizzazione. Racconta che fu il terremoto del Friuli del 1976 a smuoverle qualcosa dentro: «Con mio marito riempimmo l’auto di oggetti utili e partimmo da Bologna per aiutare. Ci tornammo diverse volte. Un religioso di lì ci disse “qui avete aperto gli occhi su chi ha bisogno, non chiudeteli più”, tornata a casa ho iniziato il mio volontariato alla Caritas». A Franca non piace la parola poveri, preferisce chiamarli ospiti. E non vuole che quella che gestisce sia solo una mensa, ma che venga percepito come un salotto accogliente e domestico. «Per me la gioia più grande è sentirli dire che qui si sentono in famiglia» e mentre dice queste parole un ragazzo chiamato Mustafa viene a salutarla e abbracciarla complimentandosi per il cibo del giorno. La Caritas e i servizi che offre si basano anche sui bisogni espressi da chi ne usufruisce. Le docce, la barberia, erano molto richiesti e sono molto apprezzati, «sentirsi puliti e in ordine è importante per la loro dignità» spiega Franca. Anche “l’armadio”, un progetto che raccoglie vestiti in buono stato per poterli dare a chi ne fa richiesta, ha successo. Un aneddoto di Franca al riguardo raccoglie tutta l’esperienza della Caritas: «Un ragazzo aveva bisogno di una maglietta. Sono andata a prenderla e gliel’ho portata, mi ha risposto che non era nel suo stile. All’inizio ho riso, fare lo schizzinoso in quel caso era un po' paradossale. Subito dopo ho capito che invece era la cosa più naturale; non ha una casa, non vuol dire che non abbia uno stile che preferisce, una personalità, dei gusti. Ha ancora sé stesso». Sono le sei di sera, sotto l’icona di San Petronio che campeggia sopra la piccola porta d’ingresso ora la luce è accesa. Terminato il pasto gli ospiti iniziano a lasciare l’edificio e a rituffarsi nelle vie del centro città. Quel filo rosso che unisce sedi e obiettivi della Caritas collega anche tutti loro e li segue pure quando non sono fisicamente nei luoghi di assistenza, una traccia tangibile del faticoso percorso d’incontro e indipendenza che ognuno di loro sta affrontando.
L'articolo è tratto dal "Quindici" n.3 del 15 maggio 2025.