L'INTERVISTA

Dalle partite di calcio tra i garage allo scudetto con il Modena. Dalle difficoltà come sindacalista alla conquista del professionismo femminile. Dai commenti della Lega Pro alla finale di Euro 2020. Katia Serra racconta una vita di prime volte, al servizio degli altri. «Quando giocavo ci dicevano che eravamo solo una perdita di tempo e avremmo fatto meglio a fare altro nella vita. Molte hanno preferito smettere, per me invece è stata una spinta in più per farcela». E alla fine Katia ce l’ha fatta. Lei, “Regina di Assist”, spariglia le carte del gioco e nella notte azzurra di Wembley è la prima donna a commentare una finale della Nazionale maschile di calcio. Tutto questo, però, ha un costo: dietro ai successi in carriera c’è una vita di scelte sofferte, sacrifici e lotte quotidiane contro i pregiudizi di genere. Il prezzo da pagare per diventare la “mamma” di tutte le calciatrici.
Qual è il suo primo ricordo legato al pallone?
«Le infinite partitelle con mio fratello più grande su e giù per la salita del nostro garage. Era mia mamma la sportiva in casa: è stata lei a farmi appassionare allo sport».
Sua mamma giocava a calcio?
«Quando era ragazza non c’erano le possibilità, ma una volta abbiamo giocato insieme una partita non ufficiale: era una sorta di scapoli contro ammogliati tra donne. Io ero troppo piccola e giocai con mia madre: io segnai cinque gol, lei tre e finì 8 a 1».
Insomma, era già un talento.
«Più che altro ero una bambina iperattiva, che non stava ferma nemmeno a tavola. Ero terribile, ma era dovuto al fatto che non potevo praticare lo sport che amavo».
Poi cosa successe?
«Una sera papà tornò a casa dicendo: “Ho trovato uno che mi ha detto che se vai in quel campo potrai finalmente giocare”. Avevo 13 anni e dopo un solo allenamento mi sono trovata titolare in prima squadra, con l’undici sulle spalle. Mi chiamavano “grillo” perché saltavo da una parte all’altra».
A chi si ispira e in chi si rivede Katia Serra?
«Ho sempre amato Platini per la sua eleganza in campo e per la sua ironia nelle interviste. Più avanti sono rimasta folgorata da Kakà per la sua capacità di mettere il talento al servizio della squadra. Mi rispecchiavo in Candreva».
Tutti giocatori che facevano segnare i compagni.
«Sì, anche io sempre amato fare le fortune dei miei attaccanti. Facevo dei cross precisissimi e vivevo per l’assist, mi emozionava più di un gol, perché è il coronamento di una sintonia di squadra».
E tra le calciatrici?
«Mia Hamm, fantastica dentro e fuori dal campo, una delle poche ad aver aiutato concretamente il movimento del calcio femminile. In America il suo nome viene menzionato come quello di Michael Jordan per il basket».
Quale allenatore le è rimasto nel cuore?
«Antonio Giardini, che ahimè ho avuto per troppo poco tempo. Era discepolo di Sacchi, insegnava il vero calcio. Ai tempi del Lugo ci parlava di difesa a zona e ci sembrava di essere il Milan degli olandesi. Durò poco perché ci faceva correre, mettendo da parte le proprie manie di protagonismo. Non tutte erano pronte a farlo»
Lei come ha vissuto il pregiudizio verso le donne nel calcio?
«Malissimo quando giocavo perché non ne capivo il motivo. Da commentatrice avevo già alle spalle 25 anni di calcio giocato e avevo già imparato a farmi scivolare di dosso certe cose».
Ci può raccontare un episodio che le è rimasto impresso?
«Quando andavo a commentare la Lega Pro, e chiedevo agli steward dove si trovasse la cabina della Rai, non venivo mai presa sul serio. Dopo avermi indicato la tribuna stampa, sentivo puntualmente in lontananza commenti del tipo “ora mandano pure le donne a commentare le partite, ma perché non le lasciano a casa”».
In campo era più tutelata?
«No, anzi, ho ricevuto delle offese dagli stessi arbitri. C’era chi diceva che eravamo solo una perdita di tempo, delle lesbiche, e che facevano meglio a fare altro nella vita. Molte hanno preferito smettere; per me invece è stata una motivazione per farcela».
Oggi cos’è cambiato?
«Intanto oggi la calciatrice esiste, e non è scontato visto che ai miei tempi era considerata una parola tabù. Se ti chiedevano cosa fai nella vita rispondevi: lavoro e gioco a calcio».
Lei ha fatto anche la sindacalista, ha avuto ripercussioni sulla sua carriera?
«Ho capito presto di essere scomoda, i top club non mi proponevano più di giocare con loro».
Si è sentita sola in questa battaglia?
«Sì, specialmente agli inizi nel 2004. Sono dovuti passare 11 anni per realizzare la prima protesta generale che comportò il mancato inizio del campionato femminile di Serie A. Dal 2011 si è cominciato a costruire un percorso più virtuoso, anche grazie a Damiano Tommasi presidente dell’Associazione Italiana Calciatori».
Quando ha giocato in Spagna, al Levante, ha notato differenze rispetto all’Italia?
«Enormi, sia per la competitività del campionato sia per come il calcio femminile veniva visto all’estero. Ho ancora impressa la frase che mi disse un’estetista quando le spiegai perché mi fossi trasferita: “Che bello, anche la figlia di una mia amica fa la calciatrice”. Da noi sarei passata per una disturbata mentale».
Proprio in Spagna però c’è stato il caso Hermoso Rubiales, il presidente federale che baciò, senza consenso, una giocatrice. Lei come avrebbe reagito al posto della collega?
«Non è mai semplice. Anche se a mente fredda pensi di avere una reazione, poi quando magari ti capita non hai la prontezza di reagire. Penso anche a quando nel 2018, durante la cerimonia di consegna del pallone d’oro della norvegese Ada Hegerberg, le chiesero se sapesse twerkare. Rimase di sasso. Posso raccontare un episodio che mi è successo?».
Certamente.
«All’apice della mia carriera c’era un allenatore che mi corteggiava continuamente, mettendomi in difficoltà nei confronti dello spogliatoio. Finché non presi il mister da parte e gli dissi: “Mettimi in tribuna, lasciami a casa, fai quel che ti pare, ma devi darci un taglio”. Per fortuna capì».
Ha visto altre situazioni del genere lontano dai riflettori?
«Quando giocavo ne vedevo di ogni: massaggiatori che allungavano le mani, o dirigenti che si mettevano vicino alla porta dello spogliatoio per buttare lo sguardo e vedere due donne in mutande».
Può esserci del sentimento tra una giocatrice e un altro membro del club?
«Può capitare di innamorarsi. Anch’io mi sono innamorata di un presidente, siamo esseri umani. Ma se succede deve essere alla luce del giorno. Oggi per fortuna le calciatrici vivono più serenamente le loro relazioni private».
Ad esempio?
«Tutti sanno che Pernille Harder e Magdalena Eriksson, capitane rispettivamente di Danimarca e Svezia, sono fidanzate. Tuttavia, quando giocano una contro l’altra se le danno di santa ragione. E non bisognerebbe stupirsene».
Con quali compagne è andata più d’accordo in carriera?
«Le portiere e le straniere. Le prime perché, dato il loro ruolo, avevano spesso una comprensione del gioco affine alla mia. Le straniere per la mentalità: si sentivano vere calciatrici, e non semplici lavoratrici con la passione del pallone».
Lo stipendio da calciatrice bastava per avere indipendenza economica?
«No, io ad esempio nei giorni di riposo insegnavo in scuole, polisportive e club. Il mio obiettivo era vivere di sport e nello sport».
Come bilanciava lavoro e vita privata?
«Mia mamma mi diceva: “Tu sei sposata con il pallone”; e infatti ho sempre messo le relazioni in secondo piano. Ottenere il professionismo nel calcio femminile era più importante per me, rispetto a metter su famiglia».
È stata costretta a far scelte difficili in tal senso?
«Sì, tra Cristian e il calcio, ho scelto il calcio… Nel mio libro racconto come lasciare il mio fidanzato dell’epoca fu una scelta sofferta, ma necessaria per seguire i miei obiettivi da sindacalista».
Le manca essere mamma?
«É una domanda che mi sono fatta, e ho capito di non sentirmi incompleta. Poi da sindacalista sono stata un po’ la mamma di tutte le giocatrici, e sono contenta di aver contribuito all’istituzione del fondo maternità».
Com’è diventata invece commentatrice?
«Quasi per caso. Fu Giancarlo Padovan, che al tempo era presidente della Divisione Calcio Femminile, a chiedermelo. Non pensavo mi divertisse così tanto».
Ed è arrivata a commentare la vittoria degli azzurri ad Euro 2020. La prima donna in assoluto.
«Mi chiedo ancora se tutto ciò sarebbe mai accaduto se non fosse stato per una necessità. Rimedio e Di Gennaro, i telecronisti designati, si ammalarono di Covid e c’era bisogno di sostituirli. Io e Stefano Bizzotto eravamo il piano b, tant’è che eravamo già tornati a casa per seguire la nazionale da normali tifosi».
Quali sono state le reazioni in famiglia?
«Il giorno stesso della notizia, dovevo andare a mangiare i tortellini per il compleanno di mia mamma. Quando mio fratello l’ha chiamata in lacrime per l'emozione, per avvisare che non sarei più venuta si è subito spaventata, pensando fosse capitato qualcosa di grave».
Com’è Bizzotto come compagno di telecronache?
«Stefano non è solo un professionista formidabile, ma è anche un uomo eccezionale. Per questo, quando dopo la partita hanno chiesto solo la mia presenza in trasmissione, ho fatto in modo che ci fosse anche lui. Ero io la notizia, la donna del giorno, tuttavia ho pensato fosse doveroso ribadire che il nostro lavoro si fa sempre in due».
Come ha vissuto i giorni seguenti?
«Ho capito cosa vuol dire diventare famosi: bastava digitare k-a-t su internet, e il mio nome usciva prima di Kate Middleton e di Kate Winslet. È stato pazzesco».
E poi cosa successe?
«Dopo Wembley la Rai mi fece un contratto, ma quando è scaduto non è stato rinnovato. Adesso sono due anni che lavoro a gettone e non commento il calcio maschile».
Come si prepara alle telecronache?
«Leggo notizie da svariate fonti, ufficiali e non. Poi prima di una partita guardo i video delle squadre e dei singoli giocatori. Sono abituata a prendere appunti anche nel corso di una diretta. Voglio dare il massimo per rispetto di chi mi ascolta. Purtroppo non posso farmi bastare il nome, come invece altri ex calciatori».
Cosa risponde a chi dice che il calcio femminile non è uno sport?
«Qualsiasi sport al femminile ha una potenzialità differente e bisogna essere consapevoli si tratti di uno spettacolo diverso. Neanche tra due secoli gli sport saranno uguali, perché le caratteristiche fisiologiche e psicologiche saranno sempre diverse».
Cosa si potrebbe fare per migliorare lo spettacolo?
«É da un po’ che mi frulla nella testa l’idea di diminuire il minutaggio delle partite di calcio femminile, e ridurre la grandezza dei campi dove si tengono».
Passiamo a Bologna, la sua città, e al Bologna: come commenta la stagione dei rossoblù?
«È da oltre due anni che bisogna essere tutti soddisfatti. La città è tornata finalmente a respirare calcio dalla mattina alla sera, dopo anni bui ci si è tornati a divertire».
Quanto è contato Motta in questo percorso?
«Non si tratta semplicemente del traguardo Champions, ma della crescita che c’è stata rispetto al punto di partenza. E se c’è continuità è perché alla base c’è una società che viaggia step by step».
Cosa significa avere un presidente come Giuseppe Saputo?
«Io l’ho sempre difeso, anche nel periodo in cui veniva attaccato. Ha salvato il Bologna dal fallimento, migliorato le strutture e dato una solida organizzazione societaria».
E Vincenzo Italiano, come giudica la sua chiamata per la panchina rossoblù?
«Obiettivamente all’inizio ha fatto fatica: credo lui non avesse capito la squadra e la squadra non avesse capito lui. C’è stato di conseguenza un passo indietro dell’allenatore e un passo avanti del gruppo, arrivando così a fondere assieme queste due anime».
Parlando di politica, come ha vissuto l’elezione di Giorgia Meloni al governo, prima donna in assoluto a diventare presidente del Consiglio?
«Intanto non condivido che si faccia chiamare il presidente, al maschile. A me tutte le linguiste hanno spiegato perché è così importante usare al femminile anche quei termini che ci possono sembrare strani, come per esempio portiere e portiera. Le parole possono influenzare la società e la Meloni ha la possibilità di incidere un cambiamento culturale».
Mentre sul resto delle sue scelte politiche e sull'attenzione ai diritti?
«La mia impressione è che nel percorso di acquisizione di maggiori diritti e opportunità per le donne ci siamo fermati. Non credo però sia solo una sua responsabilità».
L'intervista è stata pubblicata su "Quindici" il 30 aprile