Cinema

Pupi Avati (foto Ansa)
Il David di Donatello a una carriera sessantennale per un bolognese, il regista Pupi Avati. Figlio di un antiquario, musicista jazz, rappresentante di surgelati. Poi la folgorazione con la visione di 8½ di Federico Fellini, la collaborazione con Pier Paolo Pasolini. Il cinema, la regia, le sceneggiature, i libri. Tra le tante pellicole “La casa dalle finestre che ridono” del 1976, “Aiutami a sognare” del 1981, “Impiegati” del 1985, “Regalo di Natale” del 1986. E ancora “Il cuore altrove” del 2003, “Il papà di Giovanna”, del 2008, fino a “L’orto americano” del 2024. Una vita spesa dietro la macchina da presa e con la penna in mano.
Ha più di cinquanta film all’attivo, finalmente è arrivato il David alla carriera. Come si sente dopo questo premio?
«È caduta una barriera ideologica. Era ora. Non è più l’appartenenza a un partito o a un’ideologia, o la non appartenenza, come nel mio caso, a garantire la continuità del tuo lavoro. Il cinema è o bello o brutto, non esiste un cinema di sinistra o di destra. La distinzione si è risolta sulla qualità. Dopo 55 film ostinarsi a non darmi un premio poteva essere rischioso. Io potrei morire domani e, poi, tutti a piangere e a commemorarmi. Li sento già che gridano allo scandalo: “Povero Avati, manco un premio gli hanno dato”».
Ieri sera un po’ di sassolini dalle scarpe se li è tolti.
«Mai nella mia vita ho avuto un ritorno così grande. Ho messo il dito nella piaga, dicendo quello che penso sulla situazione delle società di produzione e del cinema in generale. Le prime sono in estrema difficoltà, si preoccupano soltanto di giocarsi le “cose”, le poltrone, i ministeri, questo o quell’altro. E poi fanno dei festival che sembra di essere negli anni ’60. Purtroppo, il 2025 è un anno di crisi profonda, siamo al di là di ogni immaginazione. I film non incassano più nulla, tranne pochissime eccezioni. Cosa crede? Anche i film che hanno premiato ieri non hanno fatto una lira».
Parlando di maestri, possiamo dire che Fellini un suo maestro lo è stato. Ha poi lavorato alla sceneggiatura di “Le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini.
«Erano anni in cui i miei colleghi erano a un livello diverso. Si chiamavano Vittorio De sica, Michelangelo Antonioni, Alberto Lattuada, Roberto Rossellini. Sono loro che hanno fatto la storia del cinema. Io il giro dell’oca me lo sono fatto tutto. Posso permettermi di dire quello che penso. Nessuno può contestare la mia competenza su cos’è il cinema oggi, così come ieri. Sono il regista più anziano e prolifico e sono in qualche modo garantito da questo curriculum che mi consente di dire che la rassegna “Cinema Revolution”, con il biglietto a tre euro e cinquanta, è una cagata pazzesca».
Lei è nato e cresciuto a Bologna, suonava jazz insieme a Lucio Dalla. L’atmosfera di questa città, i suoi portici, la sua arte quanto hanno influito sul suo modo di fare cinema?
«Era una Bologna culturalmente ricchissima, densa come lo era anche la provincia. Il serbatoio, la sala parto delle varie creatività, negli ambiti più diversi, da quelli professionali e industriali a quelli artistici. Si producevano e si sviluppavano delle identità molto forti che avevano bisogno di esprimersi. Ora Bologna non è più una città di provincia e io trovo che sia un po’ in crisi di creatività. Sì, è vero, la senti che è lì, è presente, si vive benissimo. Ma la bolognesità non la trovo più e non posso comparare la città di allora con quella di oggi. C’erano i ristoranti aperti fino alle tre del mattino, oggi vai alle dieci di sera e ti guardano come un alieno».
Si dice spesso che la migliore cosa che si è fatta è quella che si deve ancora fare.
«È davvero così, io la cosa migliore mi auguro di non averla ancora fatta. Spero di avere ancora quelle risorse di illusione, quella capacità direi autoillusoria, grazie alle quali credo di fare ancora meglio. Magari non accadrà, ma se non c’è questo non c’è più lo stimolo ad andare avanti».