Storia

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«Non voglio diventare un impiegato, da dove si parte per cambiare la Storia?» Queste frasi si ripetono come un mantra nel grande rettangolo bianco al centro della scena, il foglio vuoto su cui Stefano Massini, in completo nero, traccia le righe del Mein Kampf. E insieme al precipitare di libri, oggetti e vetri sulla scena, assistiamo al precipitare nella follia di un ragazzo dell’impero austroungarico che in pochi anni sarà conosciuto come Hitler. All’inizio c’è solo un giovane emarginato che parla a sé stesso e a folle immaginarie, che ha bisogno di sentirsi dire: «ci sei necessario».
In carcere scriverà il libro che ha cambiato la storia del ‘900, ed è proprio in quelle parole a lungo proibite che troviamo la radice dell’orrore. Se continuano a risuonarci dentro è perché «siamo ancora vulnerabili, attenti a dimenticare un libro così potente», ci dice Massini in quasi due ore di voce modulata, dove recitazione e testo si fondono in una performance di grande tensione e presenza scenica.
Da Vienna a Monaco, dalla prima guerra mondiale alla notte dei cristalli, seguiamo il suo flusso di coscienza incontrollabile, un monologo interiore che non trova argini e sfocia nell’alienazione e nell’odio. Da dove si parte per cambiare tutto? Dalle «parole che accetti di ascoltare, cui permetti di entrarti dentro, che come mattoni costruiranno edifici». In questo senso il nazismo è stata la storia di un libro, di roghi, della negazione di altre parole. Dall’interpretazione di Massini è chiaro che i libri non si bruciano, soprattutto quelli che temiamo più di tutti.