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Ospedale Al-Ahli a Gaza city. Foto Ansa.
Il raid israeliano di domenica scorsa all’ospedale di Al-Ahli rivela che a Gaza in nessun luogo si è al sicuro. A fine marzo 15 operatori sanitari palestinesi sono stati uccisi e sepolti in una fossa comune nel sud della Striscia. A rivelarlo il video di uno dei paramedici, che ha ripreso i mezzi colpiti, nonostante fossero contrassegnati come veicoli di soccorso.
Chi prova a raccontare ciò che accade, lo fa tra mille ostacoli e difficoltà logistiche, affidandosi spesso a testimonianze al telefono, per restituire la complessità dei fatti e delle voci. Raccontare la tragedia di Gaza significa confrontarsi ogni giorno con una violenza che diventa lo sfondo di una narrazione quotidiana. E nel ripetersi, questa violenza rischia di anestetizzare chi la legge. Delle difficoltà pratiche e morali di fare informazione in zona di guerra, parla a InCronaca Fabio Tonacci, giornalista di “Repubblica”, che da anni segue i grandi conflitti e le crisi internazionali.
L’ultima volta che sei stato a Gaza cosa hai trovato?
«Ci sono stato l’ultima volta l'anno scorso, nell'unico modo in cui un giornalista internazionale può andare adesso: embedded. È stato sconfortante. Il grado di distruzione, e stiamo parlando dell'anno scorso, è paragonabile a quello di un cataclisma. Interi quartieri demoliti, come dopo un terremoto. Il popolo palestinese non sa più dove andare, la striscia di Gaza è chiusa da un recinto, Israele non fa passare da quel perimetro e l’Egitto non fa passare dal lato. La guerra a Gaza è l’unica guerra dalla quale non si può fuggire».
Qual è il piano di Israele?
«Lo ha spiegato Netanyahu quando è andato alla Casa Bianca, intende fare pressione su Hamas perché rilasci i 59 ostaggi israeliani e punta sull’ “emigrazione volontaria” dei gazawi dalla Striscia. Io non penso che se ne andranno, perché credono di non poter ritornare poi. Israele sta sondando diversi paesi per capire chi è disposto ad accoglierli, ma per adesso nessuno si è fatto avanti. I due paesi più vicini, Giordania ed Egitto, hanno già detto di no».
Come lavora un giornalista in Palestina?
«Si lavora dalla Cisgiordania, e lo si fa principalmente al telefono. I giornalisti palestinesi sul campo diffondono la notizia sui media palestinesi, ma tu che sei fuori dalla striscia e non vedi, devi verificare tutti i fatti, si fa al telefono. Anche se con difficoltà, Internet funziona ancora nella striscia. Si chiamano diverse fonti, si cerca di ricostruire i fatti e poi si controllano anche le fonti ufficiali».
L’ultimo evento che hai raccontato?
«L’ultimo fatto grosso è stato l'ospedale Al-Ahli Arab di Gaza city, colpito da un raid israeliano la notte della Domenica delle Palme. L’Al-Ahli è l'ultimo ospedale pienamente funzionante del nord della striscia, tra l’altro l'unico ospedale cristiano. Questo attacco è stato divulgato anche dall'esercito israeliano con una nota ufficiale che riteneva che dentro ci fosse un centro di comando di Hamas. Le fonti ufficiali si confrontano sempre con i resoconti dal campo, per esempio nel caso dell’Al-Ahli provi a contattare chi è lì, i medici, i dottori, il direttore di quell'ospedale, i testimoni oculari. Poi metti tutto insieme e hai la storia».
È sempre più difficile documentare la situazione sul campo a Gaza, dove i giornalisti sono considerati da Israele dei bersagli legittimi…
«Sì, fare il giornalista nella Striscia di Gaza è diventato il mestiere più pericoloso del mondo, perché non c'è un fronte definito, per cui tutto è fronte, tutto è pericoloso. La Striscia è piccola, bombardano da tutte le parti, e i morti anche nella nostra categoria sono tantissimi. Più di 200 giornalisti palestinesi sono rimasti uccisi in questi 18 mesi».
Fabio Tonacci a Gaza. Foto concessa da Fabio Tonacci
Com’è la situazione in Cisgiordania?
«La Cisgiordania non è formalmente definita zona di guerra, però anche lì c’è un conflitto molto forte. C’è il problema dei coloni, che sono diventati sempre più estremisti e violenti. L’esercito israeliano fa operazioni nei campi profughi, a Jenin, a Tulkarem, ci sono violenze da parte dei coloni più estremisti a cadenza quotidiana contro i palestinesi dei villaggi».
Tra le storie che hai raccontato, quella che ti ha segnato di più?
«Sono molto legato alla storia di Hind Rajab, una bambina di sei anni che è stata uccisa l'anno scorso a Gaza. È diventata un simbolo, perché uccidere una bambina è un crimine di guerra, non ci sono scuse e qualcuno dovrà renderne conto. Non è solo una storia di morte. La bambina era l’unica superstite di un raid che ha colpito la macchina sulla quale stava viaggiando con alcuni familiari. Rimasta sola, ha chiamato i soccorsi ed è rimasta per tre ore al telefono, in attesa dell’ambulanza. Prima con l'operatore della Mezzaluna Rossa, poi con la madre, fino a che non hanno perso i contatti e l'hanno ritrovata morta, insieme ai due operatori che erano andati a cercarla. In quella telefonata la bimba raccontava dei carri armati israeliani, diceva di avere paura. Io per "Repubblica" ho recuperato tutti gli audio di quella telefonata drammatica e ne abbiamo fatto uno speciale. È una storia che non dimenticherò mai, che non voglio dimenticare e su cui continuo a lavorare».
La violenza a Gaza è quotidiana, ma con il tempo è come se ci fossimo desensibilizzati. Sui quotidiani, la questione palestinese è stata normalizzata, scavalcata da altri temi, che sembrano riguardarci più da vicino. Che ne pensi?
«In questo momento la tragedia di Gaza ha meno spazio, è vero, ci sono l’Ucraina, Trump, i dazi. Più che una miopia dei giornali, è un grande disinteresse della politica internazionale, e dell'Unione Europea soprattutto. In Europa si parla tanto di Russia, dei morti civili in Ucraina, però io non sento dire niente di forte e di sensato sulle morti che avvengono a Gaza. Poi da quando c'è Trump alla Casa Bianca nessuno dice più niente, e questa assenza di interventi politici rende il tutto più difficile per i giornali. In realtà i media parlano tutti i giorni di Gaza, nei Tg c’è sempre almeno una notizia, ma la prima pagina dei giornali parla di altro, è vero».
Perché secondo te?
«Perché l'Europa ritiene che l'Ucraina sia più un fatto vicino che ha delle conseguenze dirette, e quindi si parla di Putin, di Trump, di Zelensky. L’Ue non esprime una posizione precisa e chiara su Gaza, e per questo se ne parla meno. Secondo me è una grande miopia della politica ed è anche una cosa che trovo ingiusta».