quindici

Vertigo al Mast Scenarios of rapid changes

L’esposizione gratuita aperta fino al 30 giugno

 

Come si rende, in mostra, l’ansiogena realtà nella quale siamo immersi? La risposta a questa domanda sembra darla Vertigo, il cui sottotitolo - le mutazioni della società in videoarte - già spiega benissimo l’intento: fotografare il capitalismo nelle sue piaghe più parossistiche. La mostra visibile al Mast e curata da Urs Stahel, utilizza 34 opere video create da 29 artisti e suddivise in 8 aree tematiche. La prima riguarda il lavoro e i processi produttivi dove Simon Gush riprende le convenzioni che riguardano l’idea di produttività. Anche il commercio e i traffici sono protagonisti, così come i nuovi comportamenti e la comunicazione, l’ambiente naturale e il contratto sociale. Particolare spazio è ricoperto dai lavoratori della gig economy che moderano i contenuti social: un lavoro invisibile - si pensa spesso che siano gli algoritmi a farlo - sottopagato e con un forte impatto emotivo, visti i contenuti molto espliciti e violenti. Di impatto anche la sezione ambiente naturale, dove Lucy Beech porta un documentario sul freemartin, una mucca intersessuale che non dà latte ed è sterile per ragionare di bioetica e transpecismo. La videoarte è uno strumento non immediato, per la lunghezza dei video e l’attenzione che richiedono; per questo motivo Vertigo è più fruibile se frequentata in più giornate, per guardare i documentari con calma e integralmente. Sicuramente l’ingresso gratuito aiuta tale modalità, che rimane però impegnativa per lo spettatore giornaliero. 

 

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La biografia di Orlando: metamorfosi del sé

Il docufilm di Paul B. Preciado è nelle sale italiane

 

«Io mi chiamo Jenny, e in questo film interpreterò Orlando di Virginia Woolf»; «Io mi chiamo Emma, e in questo film interpreterò Orlando di Virginia Woolf». Sono venticinque lə “Orlando” che mettono in scena la biografia politica di Paul B. Preciado – uomo trans e filosofo queer – nel documentario Orlando, la mia biografia politica, distribuito in Italia da Fandango. Venticinque persone trans e non binarie che si presentano così, mano a mano che entrano in scena: “io sono… e in questo film interpreterò Orlando di Virginia Woolf ”. L’idea, come illustrata da Preciado già nella prima scena del documentario, è intrecciare il romanzo fittizio di Woolf con le vite reali dellə “Orlando” che lo mettono in scena: vediamo così una Orlando che si acconcia la parrucca come più le piace, unə Orlando che racconta del suo percorso di transizione, un altro che racconta la sua decisione di assumere ormoni senza l’aiuto di medici o psicanalisti. Il risultato ricercato dal regista alla sua opera prima è una biografia politica collettiva e un omaggio all’intuizione di Woolf che, secondo Preciado, non solo ha scritto la sua storia prima ancora che lui nascesse, ma che probabilmente oggi farebbe parte della comunità trans e non binaria. Perché la vita, riflette Preciado, non è per niente come una biografia: «Consiste invece in una metamorfosi del sé, trasformarsi col tempo. Per diventare non solo altro, ma altrə».

 

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Cospirazione animale: Marco Reggio e l’antispecismo

Un testo «per smontare delicatamente il mondo»

 

Nessun capitolo, ma solo derive. «La deriva concettuale dei capitoli – scrive Marco Reggio – consiste nel darsi una serie di tracce per andare poi alla deriva seguendo le varie questioni che potrebbero nascere». E questi “non capitoli” sono cinque. Cinque episodi di vita e resistenza che vanno oltre l’autobiografismo per analizzare contraddizioni, dibattiti e soluzioni elaborati dal mondo antispecista. Ma cos’è questa galassia e chi ne fa parte? «È imbarazzo, meraviglia e turbamento, non è mai un punto di arrivo, ma uno sguardo. Si è a fianco dei soggetti ribelli di ogni specie. Si cospira: si respira insieme». Semplificando, è una riflessione che diventa azione diretta e si pone di fianco agli esseri viventi che appartengono ad altre specie, contro la concezione che divide essere umano ed animale. L’autore condivide con il lettore una serie di domande e riflessioni che attraversano la sua personale storia di attivismo. «Cosa hanno a che fare la razza, l’abilismo e il binarismo di genere con l’animalità? In che modo la costruzione del corpo disabile si intreccia con l’animalizzazione dei reietti del Pianeta? Gli animali sono davvero soggetti “senza voce”?». Per poter rispondere però è necessario decolonizzare e decostruire il proprio sguardo, creando un discorso nel quale gli individui di cui si parla siano soggetti e non oggetti. E di deriva in deriva Marco Reggio accompagna chi legge a mettere in discussione i propri privilegi, rendendo argomenti complessi accessibili a tuttə. 

 

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Il Cyrano-Pinocchio di Arturo Cirillo

L’eroe di Rostand al Duse in lustrini e paillettes

 

“Cyrano de Bergerac” è uno dei più famosi triangoli amorosi del teatro moderno - Cyrano è innamorato di Rossana, che è innamorata di Cristiano -. Forse è proprio per questo che nessuna messinscena contemporanea si attiene più al classico di Edmond Rostand. Tutti reinventano, riadattano. Solo nei teatri del Bolognese, nell’ultimo mese, abbiamo assistito a due “Cyrano”: lo spettacolo/concerto rap di Leonardo Manzan, dal titolo “Cirano deve morire”, e la versione musicale di Arturo Cirillo. Quest’ultimo, andato in scena al Duse dal 5 al 7 aprile, è un Cyrano teatral-musicale. Arturo Cirillo, regista e attore partenopeo, mago estroso della scena teatrale, con questo spettacolo ricorda un Cyrano, scritto da Domenico Modugno, cui ha assistito da ragazzo. L’eroe romantico di Edmond Rostand, riadattato da Cirillo e ricoperto di piume, lustrini e paillettes, vuole mostrare più il lato poetico e visionario, e meno quello di uomo di spada. Un Cyrano-Pinocchio più sentimentale - gli cresce il naso ogni volta che è costretto a mentire -, meno arrogante e battagliero. Tra commedia dell’arte e avanspettacolo, sembra che Cirillo sia stato contaminato anche da “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Le performance degli attori si intrecciano al gioco di passioni, menzogne e inganni di Rostand. Il tutto si sviluppa su una piattaforma rotonda posta sul palcoscenico con tanto di sipario in raso, fino all’ultima, ineluttabile, passerella. 

 

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Atto II: Cowboy Carter Beyoncé goes country

Uscito lo scorso 29 marzo rimane in vetta alle classifiche

 

È il secondo atto della trilogia dell’artista texana, che con Cowboy Carter, uscito il 29 marzo, si riappropria di spazi musicali dai quali la comunità afroamericana è stata a lungo esclusa. Il country è diventato di dominio bianco, voce delle frange più conservatrici degli stati del sud che con un atto di whitewashing hanno spazzato via nomi che hanno fatto la storia di questo genere musicale. In questa missione di riappropriazione Beyonce realizza un album di 27 canzoni che spaziano dal folk alla trap, passando per il western, un accenno di opera lirica fino ad arrivare al blues. A sostenerla in questo racconto in musica sono icone come Dolly Parton, che fa da introduzione alla cover di “Jolene”, Willie Nelson, Stevie Wonder e Paul McCartney che viene omaggiato con una nuova versione di “Blackbird”, la canzone uscita nel 1968 in “White Album” dedicata alle proteste del movimento dei diritti civili di quell’anno. Beyoncé rimane l’unica artista contemporanea che ad ogni uscita stravolge le aspettative, che si immerge in dimensioni musicali inaspettate con l’attenzione metodica di un’accademica e la creatività di una straordinaria cantautrice. E che si riconferma già una leggenda del suo tempo, senza che questo l’abbia mai impigrita. I testi, i riferimenti storici e la produzione dei brani rimangono la qualità distintiva dei progetti musicali della signora Carter che a questo giro ci ha fatto pensare almeno una volta: «Forse ho bisogno anche io di un paio di cowboy boots».

 

 

Nell'immagine una scena del docufilm "Orlando" di Paul B. Preciado. Foto Ansa 

Recensioni pubblicate nel Quindici n° 20 in data 11/04/2024.