Popolo saharawi
Domenica 14 aprile alle 21.30 al Cinema Galliera verrà proiettata l’anteprima del documentario “Il filo di sabbia”. Protagonista il popolo saharawi, che da oltre cinquant’anni vive nei campi profughi del deserto dell’Hammada, in Algeria. Alla regia Tommaso Valente, che ha raccontato a InCronaca il suo lavoro.
Com’è nata l’idea di girare questo documentario?
«Tutto è partito da una mia curiosità umana, cioè quella di indagare la relazione tra le persone e il territorio in cui vivono, in questo caso un popolo senza terra, confinato da decenni in un campo profughi. A questo si aggiunge un’idea “produttiva”, portata avanti da organizzazioni come Cisp, Nexus Emilia-Romagna e Rete Tifariti, che consiste in supportare e far conoscere la storia e la causa dei saharawi».
Ma chi sono i saharawi?
«Il popolo dei saharawi proviene dal deserto del Sahara occidentale, un tempo colonia spagnola e oggi occupato dal Marocco. Nel processo di decolonizzazione, i loro territori sono stati invasi dalle truppe marocchine e i saharawi sono stati così costretti a rifugiarsi in territorio algerino, in quella che a tutti gli effetti è una “no man’s land”. Dal punto di vista umano, i saharawi rappresentano un elemento di resistenza incredibile. Tengono testa alle asperità del deserto, dove le temperature superano i cinquanta gradi e la sabbia ti si attacca alle gengive, al radicalismo, alla diaspora, al confinante Marocco, uno Stato a loro nemico. Sono un popolo di fortissime tradizioni, molto disponibile nei confronti degli stranieri, mi hanno dato una grande lezione di dignità».
Ha visitato quattro volte i campi dei rifugiati saharawi, come si vive lì?
«Mi è sembrato di percepire una sospensione del tempo come lo conosciamo noi occidentali. L’attività umana ha un ritmo e un’importanza completamente diversa, quello che conta è l’essere perché da avere lì non c’è quasi nulla. Qualcosa di assurdo per la nostra società, in cui il possesso di beni è il simbolo del nostro status. Nei campi, invece, quasi tutto ciò che si vive è riferito all’essere perché non c’è niente da avere».
Un luogo distante culturalmente, quindi, ma anche fisicamente. Quanto ci ha impiegato a raggiungerlo?
«È stato un viaggio lunghissimo, durato un giorno intero. Dall’Italia si arriva ad Algeri in aereo, da Algeri ci si sposta a sud-ovest, fino a Tindouf. Lì sono stato prelevato in Jeep, ho passato diversi check point e poi sono arrivato ai campi. Ho alloggiato nel “protocollo”, un luogo protetto adibito all’accoglienza degli ospiti stranieri, con coprifuoco alle sette del pomeriggio, dove ho conosciuto molti cooperanti. Sono stato accolto anche in casa di una famiglia saharawi».
E com’andata?
«Le loro case sono essenziali, fino a poco tempo fa erano costruite con l’argilla. Niente acqua corrente ma c’è l’elettricità, fornita dallo Stato algerino. L’ingresso di ogni abitazione dà verso un cortile esterno, tutte le case di una famiglia si “guardano” e condividono lo stesso cortile. L’uomo che si sposa va a vivere a casa della moglie, quindi è la famiglia materna a mantenere l’unità familiare. Con i sarahawi si comunica in spagnolo, qualcuno parla anche italiano perché molti di loro da bambini hanno fatto viaggi in Italia. Questo perché tra i saharawi c’è il più alto tasso di celiachia al mondo, pari al 6%, quando in media è intorno all’1%, dovuto probabilmente al tipo di grano che mangiano, fornito dal World Food Programme. Per questo e per altri problemi legati alla salute, i saharawi vengono spesso in Italia o in Spagna a passare l’estate, sottoponendosi anche a programmi di cura. Ad esempio, l’interprete con cui lavoro parlava italiano con accento toscano perché ha vissuto a Cascina, in provincia di Pisa, dove ha seguito un programma per la celiachia».
Torniamo al documentario. Che cosa vorrebbe comunicare con “Il filo di sabbia”?
«Sicuramente, da un punto di vista politico, vorrei far conoscere la storia del popolo saharawi, spero che lo spettatore riesca a entrare in sintonia con questa cultura e sentirsi stimolato a conoscerla di più. So benissimo che un film non può risolvere una questione diplomatica che va avanti da cinquant’anni ma credo che le persone possano, informandosi, tracciare questa strada. D’altra parte, da un punto di vista più “artistico”, vorrei comunicare l’essenza di un luogo dove essere è più importante di avere, dove il tempo scorre in maniera diversa, qualcosa che in Occidente abbiamo dimenticato e con cui dobbiamo tornare in contatto».
Sia a livello umano, sia a livello pratico, quanto è stato complesso girare un documentario di questo tipo?
«Cerco sempre di influire il meno possibile sull’ambiente che mi circonda e di dare quante meno indicazioni possibili ai soggetti del documentario. È complicato costruire una relazione sufficientemente intima con loro in modo che possano fidarsi di me a tal punto da dimenticare che io sia presente lì. Quando smettono di chiedermi “che cosa vuoi che faccia per te?” è fatta. Quindi direi che non è difficile tanto registrare questi documentari, quanto creare le condizioni adatte per poterlo fare».
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Foto di Marina Mackle Olmi