Cinque pezzi buoni

Andrea Colamedici, 36 anni, originario di Roma, è saggista, filosofo e divulgatore culturale. Assieme alla moglie, Maura Gancitano, ha fondato Tlon (dal nome che Jorge Luis Borges diede a un pianeta immaginario), un progetto che mescola cultura alta e bassa e prova a connettere l’ambiente accademico e il mondo pop.

Alle 19 il filosofo partecipa, in Salaborsa, all'evento “Cinque pezzi buoni”, promosso dall’Università di Bologna e da Salaborsa per parlare di informazione di qualità, nel corso del quale dialogherà con gli allievi del Master in Giornalismo e con il direttore Fulvio Cammarano per illustrare la sua idea di giornalismo di alto livello attraverso la scelta di cinque pubblicazioni dei mesi precedenti che lo hanno colpito.

InCronaca lo ha intervistato su temi a lui cari, come l’informazione di qualità, l’intelligenza artificiale e il rapporto fra social e informazione.

Lei oggi prenderà parte all’evento “Cinque pezzi buoni”. Con che criterio ha scelto i cinque servizi? E in particolare, perché quello di Wu Ming 1 sul complottismo e il podcast del Post “L' Invasione” curato dai giornalisti Luca Misculin e dallo scrittore Riccardo Ginevra?

«Sono tutti pezzi strani, ho scelto solo pezzi strani. Il podcast “Invasione” perché Misculin mi piace molto come giornalista e perché, appunto, è un prodotto strano, diverso da quelli che fanno di solito. Il podcast, infatti, incrocia una serie di temi che a me stanno molto a cuore e che non è facile unire: la linguistica, la genetica, la mitologia, l'archeologia, e lo fa in maniera accattivante e funzionale».

E per quanto riguarda l'inchiesta di Wu Ming 1 per Internazionale "Perché dobbiamo prendere sul serio le fantasie di complotto"?

«Quella di Wu Ming 1 è un'inchiesta narrativa in due parti, lunga e complessa. Parte dal contemporaneo per arrivare al filosofico: cioè parte dal concreto, dalle alluvioni, dalle cause e dalle colpe, per poi evidenziare non soltanto le possibili soluzioni e le responsabilità, ma ha anche una apertura di senso nei confronti di quelle che sono le radici del complottismo. E inoltre racconta quanto di buono stiamo perdendo non educando le persone alla relazione con i complotti. Potremmo evitare che le persone cadano nei complotti e non lo facciamo. È un articolo che, secondo me responsabilizza chi fa informazione».

Cambiamo argomento. Lei si è occupato tanto di social dove è molto attivo. Le chiedo: quanto sono importanti i social per il buon giornalismo e per la divulgazione culturale?

«I social sono un pharmakon, che è una parola greca che indica un qualcosa che è sia una medicina che veleno. Da una parte hanno dato la possibilità di accedere a informazioni, a notizie a cui altrimenti mai avremmo avuto accesso. E dall’altro sono un luogo di maleducazione attiva, arene in cui riversiamo i nostri lati peggiori».

Parliamo invece di divulgazione culturale. Il giornalismo si può intrecciare con la divulgazione? Possono collaborare?

«Sì, certamente. Può essere una occasione per far collaborare discipline umanistiche diverse e per sperimentare nuove forme narrative. E, inoltre, l’alleanza fra giornalismo e divulgazione può attualizzare dei saperi che altrimenti rischiano di essere smarriti. Se non ci mescoliamo non possiamo imparare cose nuove e non possiamo migliorarci».

In ambito filosofico lei si è interessato anche di intelligenza artificiale. La ritiene più una risorsa o un problema?

«Sono entusiasta dell’intelligenza artificiale e ritengo che sia lo strumento più potente che l'umanità abbia mai inventato. Abbiamo però commesso degli errori, e stiamo continuando a commetterli. Non abbiamo mai usato bene l’IA, non l’abbiamo mai capita e non ci stiamo impegnando per comprenderla.  C'è tanta ignoranza sul tema: le persone utilizzano gli strumenti che gli vengono messi in mano e non si domandano nulla del loro funzionamento. Stiamo lasciando questo strumento a una serie di realtà corporate estremamente potenti e interessate solo al profitto».

Quindi lei teme una sorta di sfruttamento capitalistico dell’IA?

«Ho paura che si faccia dell’intelligenza artificiale uno strumento meramente economico all'interno di un monopolio di fatto, composto da pochissimi grandi gruppi, un'oligarchia digitale che Gianīs Varoufakis chiama il techno-feudalesimo».

Il buon giornalismo può aiutare a evitare questa deriva?

«Sicuramente. E può fare più cose. La prima è, ovviamente, informare bene e dettagliatamente, senza dover rincorrere le novità e senza cadere nell’ansia del clickbaiting. E poi è necessario responsabilizzare le persone, far comprendere loro che questa cosa le interessa e condiziona le loro vite. E dall'altra parte io credo che sarebbe utile, tanto per i filosofi quanto per i giornalisti, studiare non soltanto la facciata, ma anche il funzionamento dell’IA».

 

Foto concessa dall'intervistato