QUINDICI

Dall’inizio dell’era di Viktor Orbán, che dal 2010 tiene in pugno le redini istituzionali dell’Ungheria, intervenendo a muso duro anche sul sistema elettorale che gli ha consegnato le ultime politiche del 2022, di proteste – soprattutto a Budapest – se ne sono viste. Ma pochissime, forse nessuna, è riuscita a coinvolgere gli strati della società civile che lo scorso 16 febbraio sono scesi in piazza degli Eroi, a pochi chilometri dall’Assemblea nazionale ungherese. Ragazze e ragazzi, bambini, famiglie e anziani: le stime parlano di decine di migliaia di persone. Tante, soprattutto se si pensa al fatto che in molti, come riportato da alcuni media internazionali, han- no dichiarato di non essere mai stati a una protesta né di avere alcun interesse alla bagarre politica interna ed europea che coinvolge il Paese. Ma che in piazza degli Eroi sono arrivate dopo la call-to-action pubblica arrivata dai social media. Quella che è seguita allo scandalo che ha portato alle dimissioni della Presi- dente della Repubblica ungherese Katalin Novák. Un passo indietro. Il 2 febbraio 2024 viene pubblicato da un sito di informazione indipendente un ordine del tribunale in merito a un caso di pedofilia relativo a qualche anno precedente. Si scopre che nell’aprile 2023 la Presidente della Repubblica grazia una trentina di persone. Tra queste c’è un uomo, vicedirettore di un orfanotrofio statale di Bicske, a una mezz’ora da Budapest. Condannato a tre anni di carcere per avere partecipato ad insabbiare innumerevoli casi di pedofilia commessi dal direttore della struttura. Oggi in carcere con una sentenza di condanna a otto anni. Per un Paese come l’Ungheria con una base cattolica così ampia e per un partito come quello di Orbán – Fi- desz – che della protezione dell’infanzia ha fatto un valore cardine, si tratta di un terremoto politico. Che scatena da un lato l’opposizione, oggi molto frammentata, ma soprattutto la società civile. Che scende in piazza per chiedere una riforma della cultura politica del Paese. Dopo i primi tentennamenti arrivano però le dimissioni della Presidente Novák, alle quali seguono anche quelle di Judit Varga, ministra della Giustizia e possibile capolista di Fidesz alle prossime elezioni europee. Entrambe fedelissime del premier, un aspetto che, se non ha la capacità di scuotere la maggioranza, può avere qualche effetto sulle elezioni locali del prossimo giugno e su quelle europee. Nel frattempo, sui social incomincia a succedere qualcosa. Youtuber, influencer e musicisti chiamano a raccolta i propri follower. Su Instagram nasce la pagina “Bantottak” che con il primo post dà appuntamento per la protesta “Monsters walk outside – Ci sono mostri là fuori” del 16 febbraio in piazza degli Eroi a Budapest spiegando che «quello che è successo va oltre la persona e la responsabilità dell’ex Presidente della Repubblica ed ex ministra della Giustizia. Lo Stato ha deluso i bambini più vulnerabili con un tragico destino». In questo gruppo di figure pubbliche non ci sono politici né sono presenti bandiere di associa- zioni o partiti. Lili Rutai, giornalista ungherese che vive tra Budapest e Londra racconta di quel venerdì sera: «Quelle che hanno chiamato a raccolta queste 50mila persone non sono figure pubbliche solite a esprimersi politicamente contro il governo. Ci sono stati gli youtuber, i musicisti che hanno chiesto ai propri ascoltatori di presentarsi, ma anche le influen- cer che generalmente postano solo contenuti di moda o life-style». E che siano stati capaci di mobilitare un numero così ampio di persone si spiega togliendo l’elemento politico di mezzo. Alla manifestazione è stato richiesto esplicitamente di non portare bandiere di partiti o associazioni e dai social la call-to-action è stata velocemente ripresa dai media, che nonostante rimangano un importante asset dell’illiberalismo di Orbán – che li controlla in larga parte – hanno fatto da cassa di risonanza all’evento. Questo ha raccolto persone che, spiega Rutai, «non sono mai state ad una manifestazione di protesta prima d’ora e che sono rimaste tutta la sera nonostante la piazza fos- se stracolma, la metropolitana fosse bloccata e dalle ultime file non riuscissero a sentire i discorsi che si susseguivano dal palco». Nei giorni successivi, i leader delle forze di opposizione, presenti alla manifestazione, ma sparsi tra il pubblico, hanno cercato di cogliere l’onda di indignazione con un’altra giornata di proteste. Chiedendo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e la riforma della procedura di pardon di cui il Presidente ha competenza. Un’iniziativa che tuttavia non è riuscita a trascinare in piazza i numeri sperati.  Sarà da capire se la fiamma accesa con la manifestazione del 16 febbraio sarà in grado di avere qualche effetto sulle prossime elezioni, se saprà eventualmente raggiungere anche le aree più rurali e conservatrici del paese o rimarrà nella più liberal Budapest. Il premier ungherese intanto continua la sua passerella elettorale in giro per il mondo, dove sta continuando a forgiare il proprio profilo inter- nazionale. Ha garantito il suo endorsement a Donald Trump e si è avvicinato pericolosamente a Putin utilizzandone il linguaggio. Lo scorso ottobre, durante l’incontro con il leader del Cremlino a Pechino, ri- ferendosi all’invasione russa ha parlato come lui di “operazione militare”. Sull’Ucraina continua a mante- nere le proprie resistenze, a dicembre ha ceduto sulle trattative relative agli aiuti da destinare al Paese dopo aver posto il veto sui 50 miliardi sul tavolo. Sui quali, dopo lunghe contrattazioni, ha raggiunto un accordo, da cui per vie traverse ha ottenuto anche l’emissione di una parte dei fondi di coesione. Una decina di miliardi destinati all’Ungheria, ma rimasti congelati a Bruxelles a causa della deriva autoritaria introdotta da Orbán. Che le corti europee negli ultimi anni hanno condannato duramente, portando alla luce le gravi infiltrazioni politiche subite dalla magistratura, dalla stampa, dalle pubbliche amministrazioni e dai media. L’Ungheria rimane l’osservata speciale in Europa. Dopo l’inversione di rotta della Polonia, oggi in mano a Donald Tusk che lavora per riportare nel Paese istituzioni indipendenti e democratiche, Orbán ha perso un compagno di giochi e di strategie. E nonostante le voci su un possibile ingresso di Fidesz tra le fila di Ecr – il gruppo dei conservatori euro- pei guidato dalla premier Meloni – dopo le Europee, sembra impensabile un futuro ungherese nel gruppo che sosterrà la ricandidatura di von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea.