l'intervista

Nei giornali, in prima pagina, torna all’attenzione il tema delle migrazioni. È di pochi giorni fa, infatti, l’annuncio del nuovo decreto sull’immigrazione da parte della presidente del Consiglio Meloni; tra l’apertura di nuovi Cpr e l’emanazione dello Stato d’emergenza sul tema, non sono state poche le critiche da parte dell’opposizione.

Per capire meglio come funziona effettivamente l’emergenza in Italia e quale sia la situazione nelle province abbiamo parlato con Massimo Masetti, 49 anni, vice sindaco di Casalecchio di Reno e responsabile Emilia-Romagna per l’Anci in tema immigrazione.

Quante persone migranti ospitate al momento nel vostro comune?

«Attualmente circa 28-30 persone». 

E di quanti posti disponete in totale?

«Per ora abbiamo circa 35 posti, quindi ci sono circa cinque posti disponibili». 

Potrebbe spiegarci meglio come funziona la distribuzione delle persone migranti nelle province?

«Per quanto riguarda l’Area Metropolitana bolognese esiste un progetto guidato dalla città di Bologna sui posti Sai (sistema accoglienza immigrazione) al quale hanno aderito 52 comuni su 54. Ognuno si impegna a cercare soluzioni abitative per creare posti Sai, che poi vengono gestiti a livello centrale in Area metropolitana dal servizio di Asp a cui fanno riferimento tutti gli altri distretti. Normalmente c’è un tavolo metropolitano che si occupa della distribuzione sapendo che c’è un certo numero di disponibilità su tutta l’area». 

Ci sono obblighi per quanto riguarda il numero da rendere disponibile?

«No, non c’è un vero e proprio obbligo ma più che un impegno a trovar più posti disponibili possibili. Servono appartamenti che in un secondo momento vengono gestite dalle cooperative sociali, parte del sistema Sai. È chiaro che se, oltre alla ricerca normalmente svolta sui territori da queste cooperative, anche il Comune si spende nella ricerca è più probabile trovare delle soluzioni abitative».

In questo momento state vivendo una situazione emergenziale?

«No, la situazione, dal punto di vista delle persone migranti, è assolutamente sotto controllo. A mio parere, essendo anche responsabile Anci immigrazione per l’Emilia-Romagna, il problema è la decisione presa dal governo sui Cpr».

Si riferisce alla scelta di aumentare il numero dei Cpr?

«Sì. È un modello che non funziona perché concentra molte persone in unico luogo quindi crea tensioni, insicurezza, marginalità sociali e via dicendo, ma soprattutto non favorisce l’integrazione di queste persone». 

Dunque su quale modello sarebbe più opportuno puntare?

«Il modello, nato in Emilia-Romagna, e che noi riteniamo essere molto più efficiente, è quello dell’accoglienza diffusa. In primis con i Cas e poi con i Sai: piccole strutture che ospitano un numero non enorme di persone». 

Nel concreto quali sono i vantaggi?

«Per prima cosa si responsabilizzano i Comuni, cosa che non avviene con un Cpr o un Cas perché dipendono dalle prefetture, dal governo centrale o da commissari straordinari per l’emergenza. Con quel tipo di struttura i Comuni subiscono e non sono protagonisti dell’accoglienza. Mentre, attraverso strutture Sai diffuse sui territori, anche il Comune diventa parte integrante dell’accoglienza. Con i Sai non c’è un posto che identifica le persone straniere, dal momento che sono diffusi su tutto territorio. Poi ovviamente un conto è gestire una decina di persone, diverso gestirne due o trecento». 

Ma in questo modo si rischia di avere meno posti?

«Il problema sono più che altro le risorse. Il sistema Sai nazionale ha un numero di posti finanziati, ma Anci ne ha chiesti altri cinquemila che non sono arrivati. Si tratta solo di un problema di risorse perché le soluzioni abitative si trovano e la gestione si fa solo se si trovano i soldi. Abbiamo superato il tema dei Cpr per arrivare a questo modello che funziona molto meglio. Se dobbiamo tornare indietro è una sconfitta». 

Quali sono i servizi che vengono fornite a queste persone per garantire una vera e propria integrazione?

«Nei Sai sono garantiti vari servizi: dai corsi di italiano a percorsi di inserimento lavorativo. Ci sono degli educatori dedicati a un piccolo nucleo di persone che ne seguono l’andamento dal punto di vista dell’integrazione, dell’apprendimento della lingua, dell’inserimento al lavoro e via dicendo. Poi normalmente si crea anche una rete dell’associazionismo locale, dalla parrocchia all’associazione di volontariato. Questo modello non è replicabile in un contesto che vede un numero di persone concentrate in un unico luogo». 

Lei ha avuto esperienza anche in altri comuni in cui ha fatto esperienza di questa differenza?

«Sì, per esempio Bologna o Sasso Marconi. C’era Villa Angeli che ne concentrava 80 e era già ingestibile, e in questo caso stiamo parlando di un Cas, quindi una situazione comunque migliore dei Cpr». 

Cosa ne pensa dell’attuale scelta del Governo di dichiarare lo Stato di emergenza per quanto riguarda l’immigrazione?

«Penso che sia una mossa del tutto inadeguata. I flussi migratori esistono in Italia dal 1985. Continuiamo a parlare di emergenza ma in realtà si tratta di un fenomeno strutturale. In quanto tale è fisiologico anche che si verifichino dei picchi, ma il problema è piuttosto il fatto che non si vuole strutturare un servizio preciso e puntuale sia di accoglienza che di integrazione. Continuiamo a parlare di emergenza ma in questo momento l’unica emergenza che si vive in Italia è quella che riguarda i minori non accompagnati». 

Può spiegarci meglio?

«Nell’ultimo periodo si sta verificando una vera e propria impennata di ragazzi e ragazze tra i 14 e i 17 anni. E queste persone sì che sono difficili da gestire perché essendo minorenni vanno tutelati e non possono essere messi nelle stesse strutture che ospitano gli adulti. E, non essendoci abbastanza strutture adeguate, il rischio è quello che cadano facilmente preda della microdelinquenza o della delinquenza organizzata». 

Cosa è cambiato rispetto agli anni passati?

«Per molto tempo noi abbiamo avuto, per quanto riguarda i minorenni, un tipo di immigrazione tradizionale. Quindi ragazzi e ragazze mandate dalla famiglia qui soprattutto per studiare o lavorare. Adesso invece arrivo quasi a ipotizzare che in alcune situazioni ci siano vere e proprie situazioni di tratta di persone. Ci sono per esempio dei picchi sullo Sri Lanka che sono quasi sicuramente organizzati». 

E questo fenomeno come si contrasta?

«Per prima cosa è essenziale strutturare l’accoglienza per minori stranieri non accompagnati. Ora viviamo una strutturazione ancora embrionale, perché i numeri non erano paragonabili a quelli di oggi. Utile sarebbe anche creare degli Hub regionali che fungano da prima accoglienza per i ragazzi e le ragazze minorenni, perché il problema è proprio quello di trovare strutture che li accolgano. Un conto è ospitare persone adulte, diverso è se si tratta di minorenni, che necessitano di cure e tutele completamente diverse. Per esempio non possono essere ma lasciati da soli, mentre gli adulti sì. In secondo luogo bisognerebbe avere maggiori contatti con i Paesi di provenienza e capire cosa stia succedendo. Perché se davvero si accerta il fenomeno della tratta di persone o comunque qualcosa di simili è necessario che anche il Paese d’origine ci dia una mano».