Intervista

Ovadia, lei è attore, regista, scrittore, poeta, musicista e attivista. Quale definizione preferisce?

«Mi piace descrivermi come uomo di teatro e attivista politico».

Cosa ha provato a riportare in scena Oylem Goylem a Bologna?

«È stata una gioia immensa. La sintesi di tutto un cammino. Qui Oylem Goylem ha ricevuto l’accoglienza più bella e calda di sempre. Continuare a recitare questo spettacolo dopo trent’anni mi permette di far conoscere una realtà sconosciuta ai più attraverso gli strumenti semplici del teatro. Sono riuscito a rappresentare una delle esperienze più grandi che l'umanità abbia mai vissuto ossia la cultura ebraica del centro-est Europa e il loro vivere come Nazione dell’esilio».

 Si riferisce alla figura dell’Ebreo errante?

«Esattamente. Lo scopo dell'opera è glorificare la condizione dell’esilio perché è in questa dimensione che l’essere umano ritrova lo splendore della sua nobiltà. Nell’esilio c’è l’umanità e basta, non c’è spazio per confini e passaporti. La grandezza del sapere e del pensiero ebraico è arrivata quando non avevamo una terra. Finché ci sarà il nazionalismo vedremo sempre sangue, guerre e distruzione. Saremo in grado di vivere in pace solo quando vivremo da stranieri tra gli stranieri».

 Si è sempre dichiarato agnostico e filopalestinese. Che rapporto ha con la fede e con lo stato d’Israele? «Israele è uno stato sionista e il sionismo è un furioso nazionalismo declinato con il fanatismo religioso. Non c’è nulla di più pestilenziale. Io non sono credente, ma rispetto la religione. Non sopporto invece chi usa Dio come strumento di legalità internazionale. Se essere contrario al fanatismo religioso vuol dire essere antisemita mi chiamino antisemita».

Crede che un giorno israeliani e palestinesi riusciranno a convivere in pace?

«Per uscire dalla pestilenza nazionalista ci vorranno dei decenni. Ma ebrei e palestinesi sono tra i popoli che più si assomigliano: siamo entrambi beduini, gente del deserto. Solo quando si riuscirà a sconfiggere il morbo nazionalista che ha come mito la terra potrà esserci una convivenza pacifica».

 A proposito di nazionalismi, nel contesto politico internazionale la preoccupa più un Putin o un Bolsonaro?

«Bolsonaro è un fascista, un tipico esponente del pensiero ultrareazionario e io sono antifascista fino al midollo. Ci sono certe somiglianze con Putin, ma hanno una storia diversa. Putin è un uomo intelligente e capace che ha scelto la strada dell’autocrazia perché non concepisce l’idea di democrazia in modo totale. Per capire il personaggio bisogna conoscere la Russia e purtroppo gli occidentali ignorano totalmente quel mondo».

Può aiutarci lei a capirlo?

«La Russia è un Paese complesso con un numero impressionante di nazionalità e il territorio più vasto del mondo. Spesso ci dimentichiamo le sofferenze che questo popolo ha subito nella sua storia: nel 1945 hanno contato ventisei milioni di morti, hanno visto orrori inenarrabili di cui gli occidentali, e in particolare, gli Stati Uniti non hanno idea. Non si può capire questo universo senza conoscere almeno una lingua slava e ascoltare le storie delle persone che lì hanno vissuto».

Quante lingue parla?

«Dieci. Parlare è una cosa grossa, alcune le mastico, ma faccio errori perché le ho studiate tutte da solo».

Crede che l’attuale isolamento internazionale della Russia sia stato causato dagli Stati Uniti? «L’establishment americano non ha mai visto la Russia come sua pari. L’unico momento in cui gli Stati Uniti hanno amato la Russia è stato quando governava un delinquente alcolizzato di nome Boris Eltsin che stava svendendo il suo Paese agli oligarchi. Non credo alla storia dei buoni e cattivi e non credo che gli Stati Uniti agiscano in favore della democrazia. Penso invece che aspirino a un’egemonia mondiale e Putin cerchi di contrastarli».

Dunque Putin è un uomo che fa solo gli interessi del suo popolo?

«Putin è un tiranno. Devo dire, per onestà, che se fossi russo mi troverei in galera se non altro perché difenderei i diritti degli omosessuali e di tutte le minoranze. Ma non credo alla narrazione occidentale che dipinge Putin come il nuovo Hitler che vuole distruggere la pace tra le nazioni. È un modo di vedere le cose troppo semplicistico».

Lei ha però più volte rilasciato dichiarazioni contro Stati Uniti e Ue sulla guerra in Ucraina che le sono valse accuse di essere filorusso. Come risponde?

«Ai miei accusatori risponderei solo “coglioni!” perché alle mie argomentazioni non controbattono ma calunniano. Ucraini e russi di diverso hanno solo il passaporto, ma culturalmente sono lo stesso popolo. Ho ospitato tre profughe ucraine e parlano il russo come prima lingua. Io sto con il popolo, non con Zelensky che considero un criminale tanto quanto lo è Putin».

Ma gli ucraini hanno il diritto di difendersi?

«Un Paese invaso ha il diritto e il dovere di difendersi. Il problema è capire perché la guerra è stata scatenata. L’Occidente si limita a vedere Putin come un villano che vuole rioccupare lo spazio ex-sovietico. Sono stupidaggini. Bisogna smettere di raggirare i cittadini facendogli credere che le azioni militari dei loro governi sono fatte in loro favore. Altrimenti perché non diamo le armi anche ai curdi per difendersi dai turchi? Erdogan è diverso da Putin? Io credo di no».

Parlando di politica di casa nostra come giudica le lacrime di Giorgia Meloni in occasione della festa ebraica della Hanukkah?

«Non amo giudicare le intenzioni delle persone. Conosco personalmente Giorgia Meloni, è una donna in gamba e non credo voglia tornare al fascismo. Le lacrime però sono poco convincenti. Avendo quell’eredità politica, dovrebbe versarle in Etiopia dove sono stati gasati con l’iprite 135 mila civili. E poi in Cirenaica, in Grecia, nella ex-Jugoslavia e in tutti i luoghi dove il fascismo italiano ha commesso crimini».

Lei è direttore del Teatro Comunale di Ferrara dal 2020. Come si trova a lavorare in una città amministrata dalla Lega?

«Lavoro benissimo a Ferrara. Ho ricevuto l’incarico di dirigere un teatro, non di fare lavori politici. Quando ho parlato con il sindaco, Alan Fabbri, mi ha detto che era un grande onore avermi lì nonostante conoscesse le mie idee politiche. Non ho mai avuto problemi. Chi mi ha messo i bastoni fra le ruote perché sostenevo i diritti dei palestinesi è stata la sinistra in cui ho militato per cinquantacinque anni».

Cosa pensa della sinistra italiana?

«Oramai non esiste più. Io la chiamo la non-destra. Ha perso la sua identità e i suoi temi fondamentali come il ripudio della guerra, la sanità e la scuola pubblica, la giustizia sociale e l’uguaglianza. Se la situazione politica italiana è quella attuale la responsabilità è del Pd che è diventato un puro agglomerato di potere destinato a estinguersi».

Non crede che i candidati alla segreteria Bonaccini e Schlein possano invertire questa tendenza?

«A malincuore no. Bonaccini è un bravo amministratore, ma non è un leader politico perché manca di carisma e visione. La Schlein la conosco personalmente ed è, tra i politici italiani, una delle persone più preparate sull’Europa. Purtroppo, però, è già entrata troppo marcatamente nel linguaggio politichese».

In passato si è candidato alle elezioni regionali in Lombardia nel 2010 e poi alle Europee nel 2014. Ha intenzione di ricandidarsi? Ed eventualmente con chi?

«Non mi ricandiderei neanche sotto minaccia di un plotone di esecuzione. Non voglio fare il politico, io sono un militante. Nel 2014 mi candidai alle Europee dicendo subito che avrei rinunciato al seggio se fossi stato eletto e così feci. Oggi penso che la politica sia morta».

Tornando al teatro come è nata l’idea di Oylem Goylem?

«È stato grazie a un amico rompiscatole che, quando ero a Milano, mi ha portato a conoscere un gruppo di vecchi ebrei dell’Est Europa sopravvissuti alla Shoah. Appena li ho incontrati sono rimasto folgorato da quel mondo, da quei suoni, da quella lingua (yiddish, ndr) e ho capito che volevo raccontare questa cultura. Da quel momento ho iniziato a frequentare la sinagoga per “rubare” da loro il più possibile e costruire questo spettacolo».

Questi amici cosa le hanno detto quando l’hanno visto in scena?

«Si sono riconosciuti subito. Due li hanno dovuti portare fuori dal teatro perché si sono sbellicati dal ridere. Ma la cosa più divertente è stata tornare in sinagoga una settimana dopo lo spettacolo. Mi hanno guardato in modo ostile e gli ho chiesto subito cosa non andasse. Il rabbino, con il suo forte accento tedesco, mi ha risposto: “Signor Ovadia, lei viene qui, ruba, e non dà percentuale” (ride, ndr)».

Quale è la sua idea di teatro?

«Il teatro consente una libertà immensa e può assumere molteplici forme. Io sono stato ispirato da tutto quello che era contro il teatro di prosa (in cui il regista mette in scena un testo, ndr) perché era una grammatica che si pretendeva eterna e come unica verità scenica. La mia anima di ribelle mi ha spinto ad andare contro la tradizione anche nella mia attività artistica. Ho cercato di costruire una sorta di teatro del disagio in cui centrale è la figura dell’attore-musicista».

Quali sono stati i maestri che l’hanno influenzata di più?

 «Tra i più importanti c'è sicuramente Mejerchol'd, il migliore allievo di Stanislavskij. Lui ha costruito un teatro rivoluzionario in cui gli attori interagivano con il pubblico. Ma l’epifania totale è stato l’incontro nel 1978 con Tadeusz Kantor, l’inventore del teatro della morte. Nei suoi spettacoli non c’erano attori: c’erano grafici, musicisti, pittori e artigiani. La sua capacità di immaginare un teatro rivoluzionario ha trasformato la mia vita teatrale».

A Bologna ha avuto qualche figura di riferimento?

«Senza dubbio Roberto Leydi che proprio qui ha insegnato etnomusicologia al Dams. L’ho sempre considerato un grande maestro».

Le donne in ruoli dirigenziali nel teatro italiano sono ancora poche. Quale è la strada da seguire per ridurre questa disparità di genere?

«In anni di lavoro mi sono convinto che le donne siano molto più capaci degli uomini e che la loro abilità sia stata compressa e repressa. La scelta, però, deve essere fatta su base qualitativa e non di genere. La parità non si costruisce per volizione dall’alto ma conferendo gli incarichi alle tante donne competenti che ci sono, senza discriminazioni».

Lei ha avuto modo di frequentare Umberto Eco, può raccontarci qualcosa di lui?

«Ho avuto l’onore e il privilegio di conoscere l’uomo Umberto oltre che l’intellettuale. Quando eravamo a casa sua era solito congedare gli ospiti verso l’una di notte dicendo loro che avremmo parlato di Cabala. Rimasti soli mi raccontava invece storielle e barzellette. Era la sua vera bruciante passione».

Un’ultima battuta. Perché ha le unghie della mano lunghe? «Perché sono un chitarrista classico anche se pessimo. Io suono solo per me. Ma sono finte, le mie sono fragili come la carta velina».

 

Foto Riccardo Benedet