Equitazione

Con una sella speciale Veratti è riuscita a tornare a cavallo dopo l’incidente che le portò via l’uso di entrambe le gambe, trent'anni fa. Adesso vive in un podere sull'Appennino, un'oasi di pace in cui insegna equitazione. Racconta la sua lunga carriera da campionessa: «Nello sport, come nella vita, per i sogni bisogna lottare»

 

Corre veloce come il vento, al galoppo sfrenato, saltando ostacoli alti due metri nella gara di potenza. Silvia Veratti corre anche ora, continua a correre anche quando in un pomeriggio di luglio del 1996 una caduta da cavallo le ruba le gambe. Ma lei sei mesi dopo ci torna, in sella. E corre, paralimpiade dopo paralimpiade, prima insieme al suo Balla Coi Lupi e poi con Zadock. E adesso, conclusa la sua carriera in sella, ha deciso di insegnare equitazione e lo fa nel suo podere a Monzuno, un’oasi di pace sull’Appennino bolognese. Veratti comincia a tre anni a chiedere un cavallo. Il nonno, che abita in campagna, compra una capra, un cane, poi un somarello. A cinque anni finalmente arriva anche il destriero e sale per la prima volta in sella. Lo monta a pelo, come gli indiani. Si arrampica sulla staccionata per infilare le orecchie sotto la testiera, si aggrappa alla criniera e ci salta sopra. Ogni giorno lo stesso tran tran: con la cugina, anche lei ha il suo cavallino, passeggiano anche di notte, in mezzo ai boschi. Inizia così la passione di una campionessa. Cavalcando per montagne, fiumi e strade; senza tecnica, ma pure senza paura, «il cavallo era il mio simbolo di libertà», racconta. Bolognese, classe 1961, quando inizia, ancora non pensa alla carriera da professionista, quella è arrivata da sé con il tempo. L’importante è avere una via di fuga: dal liceo, il Fermi; dalla staticità di certe vite metropolitane; dalla realtà, semplicemente. Finito il liceo lavora nelle prime scuderie: quanta gavetta con forca e badile in mano in cambio di qualcuno che le dia le prime lezioni tecniche. Guarda gli altri cavalieri saltare e quando può ci prova anche lei, da sola. Oppure va in passeggiata e, per ore, pensa: giù i talloni, strette le ginocchia, gambe immobili. E alla fine tra gli anni senza sella e gli anni in passeggiata acquisisce una forza, un equilibrio e un assetto impeccabili «perché cavalcavo con dei matti spericolati - dice Veratti - e ci facevamo delle corse al galoppo sfrenato».
Inizia a disputare le prime gare: cross country (prove di velocità in campagna con ostacoli naturali: laghetti, tronchi, rotoballe di fieno) e palii. Poi arriva al salto ostacoli, lavora anche con campioni del calibro di Gianni Govoni e Natale Chiaudani, e la carriera da cavallerizza agonista prende il via, punteggiata da tantissime vittorie. Nei primi anni Novanta compra un terreno, è un posto sperduto a Monzuno, sull’Appennino, il Podere Porziola. Ancora oggi, dopo più di trent’anni, quell’“angolo” di paradiso di venti ettari risponde alla strada che per Google maps è una “Unnamed Road” (via senza nome). Addestra i cavalli a Monzuno, corre tra un maneggio e l’altro, insegna, va in gara.
Così fino al 1996. Quando accetta di addestrare un cavallo difficile, riottoso. «Era già grande, troppo per l'addestramento, aveva sette anni, ma il padrone lo aveva viziato», spiega Veratti. È un destriero che non conosce comandi, «quindi ho deciso di iniziare da zero, come si fa con i puledri sdomi». Il primo giorno il cavallo non risponde neppure alle più semplici richieste. «Dovete capire che per un cavallo di sette anni che non ha mai lavorato è una fatica mostruosa eseguire anche i più semplici ordini - spiega Veratti - Il giorno dopo ci riproviamo. Il cavallo si mette al centro del campo con me sopra, rimane immobile. In quel momento ho avuto una sensazione bruttissima, un presentimento. Ma non ero abituata a scendere, neanche da cavalli “matti” che correvano all’impazzata».
Nemmeno il tempo di capire e il cavallo si butta all’indietro, schiacciandola. «Per loro è una difesa - lo giustifica l’amazzone - quando sono aggrediti da un altro animale non possono fare altro che provare a schiacciarlo per toglierselo di dosso. E così lui ha fatto con me». Rottura di una vertebra e di tutte le costole, iniziano sei mesi durissimi di riabilitazione, in cui Veratti si deve imparare a convivere con l’idea di non avere per sempre l’uso delle gambe. «Io ho sbagliato, ho avuto fretta: avevo promesso al padrone che glielo avrei ridato in un mese. Potevo aspettare, fare le cose con calma, andarci più piano. L’errore è stato sottovalutare la situazione. Non era un cavallo cattivo, era solo un cavallo viziato», ribadisce Veratti. Sei mesi dopo l’incidente torna il sella grazie all’Aiasport: «La sensazione è stata orribile, ero terrorizzata - racconta - Non avevo stabilità e per il mio cervello era inaccettabile. Volevo montare solo quando nessuno poteva vedermi perché mi vergognavo».
È il 1997, l’equitazione paralimpica quasi sconosciuta. Lei però progetta la sua sella speciale, usa due frustini lunghi da dressage per sfiorare il cavallo sul costato, la voce, il respiro, il peso del corpo per gli altri comandi. Per montare sale su una rampa, le mettono il cavallo accanto in modo da avere la sella ad altezza carrozzina, lei passa sulla sella, scavalca con una gamba e la legano con dei velcri. Le staffe sono attaccate al sottopancia e i suoi piedi legati con un elastico alle staffe. Nel 1998 vince il campionato italiano disabili nel paradressage, poi bronzo individuale ai Mondiali in Danimarca nel 1999, disputa negli anni successivi altri due Mondiali e quattro paralimpiadi (Sidney, Pechino, Londra e Rio). Dopo Londra, una serie di incidenti consecutivi, dovuti ai colpi presi per la particolare posizione a cui è costretta in sella, rischiano di farla smettere per sempre: quattro fratture ai femori, una alla tibia, altrettante operazioni, due mesi a letto, sei senza montare a cavallo. Arriva però la telefonata di Laura Conz, responsabile federale del paradressage, e Silvia si convince a affrontare anche l’ultima Olimpiade. Dopo Rio, però, «ho detto basta davvero», confessa. Se pensa ora a quelle gare il primo nome che ricorda è Balla Coi Lupi, l’olandese che aveva allevato a Porziola, nato nel 1994, prima della caduta. E che con tutta la sua tenacia è riuscita a rimontare e a portare in gara. Quando ho avuto l’incidente lui aveva due anni, «non ho fatto in tempo ad addestrarlo, però l’ho tenuto con me, assieme a sua sorella Calì. All’inizio pensavo che sarei guarita un giorno e avrei potuto rimontarli. Poi non è andata così, quando l’ho realizzato ho fatto di tutto per riuscire a venderlo, ma Balla Coi Lupi era diventato ingestibile, passato per le mani sbagliate di troppe persone. Mi sono detta che lo avrei ripreso io, lo avrei montato io con l’aiuto di amici esperti». E così è stato: «Non sono guarita, ma su Balla Coi Lupi ci sono salita lo stesso e ci sono andata alle paralimpiadi di Pechino. E c’era un’alchimia incredibile: io respiravo e lui mi capiva, cambiava andatura. Ecco, questa in assoluto è stata la mia più grande soddisfazione». E poi c’è stato Zadock, piuttosto caratteriale, ma molto qualitativo, con cui ha chiuso la sua carriera da agonista, a Rio de Janeiro, nel 2016. Adesso vive ancora in mezzo ai boschi di Monzuno, con due cani e i suoi cavalli. Ha smesso di montare, ma continua a dare lezioni, d’estate, al Podere Porziola. A insegnare a piccoli e grandi cavalieri, non solo la tecnica, ma anche che «nello sport, come nella vita, devono lottare sempre per i loro sogni». Silvia Veratti racconta che nella prossima vita, vorrebbe essere una ballerina. Chissà se quella bambina testarda, un po’ spericolata ma piena di grinta, glielo lascerebbe fare.

 

Nell'immagine: Silvia Veratti in sella a Zadock. Foto concessa dall'intervistata

 

Questo articolo è già stato pubblicato sul numero 6 del Quindici il 28 aprile 2023