cinema
Pensate alle musiche di Ennio Morricone, a quella di C’era una volta in America. Immaginate Noodles, Robert De Niro, che ritorna a New York. Ma, allo spioncino, non c’è Deborah che danza su quelle note, si intravede solo la sua sagoma. E vi ricordate Roma città aperta, con una delle sequenze più famose e struggenti della storia del cinema? Se quella scena, in cui Anna Magnani viene uccisa mentre corre dietro al camion che ha portato via il suo uomo, fosse interrotta da una lacerazione sulla pellicola? Ecco, pensate alla magia del cinema che si spezza per un graffio. O che si interrompe per una nuvola di polvere.
Esiste un luogo, a Bologna, in cui le pellicole tornano nella loro veste originaria: il laboratorio L’Immagine Ritrovata. È qui che il nastro, che permetteva di registrare le immagini dei film divise in fotogrammi, viene restaurato. Un’officina, in cui Il Monello di Chaplin – per citarne uno su tutti – ha ripreso vita. In cui C’era una volta in America ha riacquisito i ventisei minuti tagliati dalla sceneggiatura originale e, ora, sono di nuovo dove Sergio Leone li aveva messi. Anche Sylvia e Marcello de La dolce vita hanno la lucentezza che Fellini aveva tanto cercato. Certo, non è stato facile, alcune inquadrature erano irrimediabilmente attaccate da muffe e la riparazione ha richiesto seimila ore di lavoro per l’opera del regista riminese. L’Immagine Ritrovata è parte della Fondazione Cineteca di Bologna. Tutta la filmografia di Charlie Chaplin, dal primo cortometraggio muto del 1914, ai film sonori della metà del secolo scorso, sono stati affidati al laboratorio di via Riva Reno 72. Quindi possiamo dire che Bologna è la capitale del restauro cinematografico? «Noi siamo nati proprio per il restauro – si schermisce la vicedirettrice Elena Tammaccaro – I laboratori nel resto del mondo hanno iniziato con la post-produzione (montaggio, correzione del colore, aggiunta di effetti sonori...)». Oggi lo studio è di ultima generazione, con strumenti che coprono ogni tipo di formato e processo, pensati per intervenire su materiali di tutte le epoche.
Nasce nel ‘92, con uno sviluppo esclusivamente fotochimico; il digitale era quasi alle porte, ma ancora non in uso, se non per il restauro audio. Nel 2007, con un finanziamento della Regione di oltre un milione di euro, L’immagine Ritrovata si dota di macchinari di ultima generazione. «Qui inizia una fase di espansione per il laboratorio in termini di assunzione di personale – racconta Tammaccaro –: vent’anni fa eravamo in sette, oggi siamo in 75 e abbiamo aperto una sede a Parigi e una a Hong Kong. Ma anche in quanto a capacità lavorativa e ampliamento del parco macchine».
Quando una pellicola da restaurare arriva al laboratorio, viene ispezionata e studiata per verificarne lo stato di conservazione. Lo facciamo anche noi, insieme ai restauratori, e le prime che ci mostrano sono degli anni Dieci del Novecento, si intitolano Lago di Como e Lago di Garda. Le pellicole scorrono fra le mani, fotogramma dopo fotogramma, avvolte in due rulli. Passano lentamente sotto gli sguardi minuziosi, illuminate da una lastra di luce. Quando ci si avvicina alle sequenze, prima che l’immagine arrivi all’occhio, sentiamo l’odore del nitrato. «Il supporto di cellulosa – spiega Tammaccaro – è stato usato nelle pellicole fino agli anni Cinquanta, poi vietato per legge perché infiammabile. In realtà, quello che faceva prendere fuoco alle sale erano, per lo più, le lampade dei proiettori a carbone». Subito dopo le bobine vengono pulite, manualmente e con dei solventi, che cambiano in base al tipo di sporcizia da rimuovere. Si interviene su strappi, verificando tutte le giunte, le perforazioni e riparandole con un nastro adesivo specifico o con una colla speciale. In questo modo la pellicola può passare allo scanner, per essere digitalizzata, senza danneggiarsi ulteriormente.
Ci mostrano un altro nastro, è molto rigido perché ha più di centoventi anni. È un negativo originale dei fratelli Lumière: Arrivée en voiture (1896). In questo caso, «la scansione è assolutamente manuale, si realizza fotogramma per fotogramma – precisa Tammaccaro – perché il sistema di perforazione della pellicola che hanno usato i Lumière è precedente alla creazione dello standard dei 35 millimetri (il più comune formato di pellicola cinematografica diapositiva, ndr), che si è affermato all’inizio degli anni Dieci». Ci sono poi i trattamenti chimici, settore in cui il laboratorio è altamente specializzato, una sorta di “ospedale delle pellicole”, che possono essere reidratanti, ammorbidenti o essiccanti. E anche la durata della “cura” cambia: da più di anno a due settimane, a seconda del tipo di problematica del film. In una delle ampolle con le pellicole “malate”, è stata inserita della canfora, nella parte bassa della
campana. Il trattamento quindi avviene attraverso un disco traforato che lascia passare solo i vapori della sostanza e la pellicola viene pian piano ammorbidita. «Probabilmente questo film è stato conservato in un ambiente troppo secco, che ha fatto evaporare le componenti più umide», sostiene Tammaccaro. Le altre etichette recitano: «Silical gel per trattamento essiccante» e «Glicerolo, reidratante». Una volta a settimana le pellicole vengono monitorate. E, quando sono “guarite” e pronte per la scansione, questa deve avvenire subito: non possono essere trattate
all’infinito. Anche perché, nel momento in cui si interrompe la cura, il film regredisce, tornando allo stato di usura iniziale. Dopo il passaggio in apposite lavatrici ad ultrasuoni, la pellicola è leggibile dallo scanner che ne trae un’immagine digitale. Il file viene acquisito in 4K da macchine di altissimo livello tecnologico. Su uno schermo di questo reparto vediamo Amok, un film francese del 1934, agli inizi del periodo sonoro, diretto da Fyodor Otsep. Poco più avanti appare Macario, film messicano del 1960. E ancora: l’horror di Mario Bava 6 donne per l’assassino (1964).
Una volta montati i rulli, ogni fotogramma viene fotografato tre volte, per avere la miglior immagine possibile. Gli operatori verificano che l’acquisizione sia fatta a regola d’arte e, dopo aver ottenuto il file digitale, si passa alla fase di restauro “elettronico”, eliminando tutte le imperfezioni: dallo sfarfallio a righe o giunture del nastro, graffi o aloni di muffa, ma rimanendo il più possibile fedeli all’idea originale del regista. Ne esce un file pulito, ma piatto, quindi è necessario correggere il colore, in 2K o 4K (color correction). Qui, si restituisce la fotografia al film, o meglio il suo look finale: contrasto, luminosità, colori. Come? Un proiettore 4K replica la visione in sala, mentre i monitor sono tarati secondo standard internazionali. Lo chiama «cinemino» Elena Tammaccaro, perché è una vera e propria sala in miniatura con tre poltrone. «Qui ci lavoriamo con Vittorio Storaro – commenta – direttore della fotografia e tre volte premio Oscar». Necessaria, in questa fase, è la competenza filologica, il confronto con i positivi dell’epoca e, magari, anche suggerimenti e consigli di un dop (director of photography) – come Storaro – Entriamo, subito dopo, nella sala mastering, l’ultima fase del processo. Dove il film viene controllato e vengono creati tutti i file di lavorazione intermedi per i vari settori e i dcp (digital cinema package) per le sale cinema, ovvero il prodotto letteralmente ‘impacchettato’ per la proiezione finale. Qui vediamo proiettato su uno dei computer A woman of Paris di Chaplin. E, poco più avanti, è un’immagine della Montagnola a catturare la nostra attenzione: è un film documentario di inizio Novecento.
Parallelamente si esegue il restauro del suono, sulla colonna audio, con un macchinario che è in grado di leggere nastri positivi e negativi. Mentre la camera a 2K legge il bordo della forma d’onda impressa sulla pellicola e fa una sorta di conversione: dall’immagine al suono. Con software dedicati si effettua la pulizia, in maniera quasi chirurgica, per poi esportare il file audio o per ristampare la pellicola.
Il costo di un restauro cinematografico, tuttavia, varia in base ad innumerevoli fattori: la durata del film, lo standard, il livello di digitale o le ore di color correction. «Può andare dai 10mila euro ai 300mila – dice Tammaccaro – a 1 milione e 900mila se si tratta di Napoléon di Gance del 1927 (ride, ndr)».