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Il 23 giugno 2016 la popolazione del Regno Unito vota per uscire dall’Unione Europea tramite referendum. È l’inizio della Brexit, la crisi britannica più importante degli ultimi decenni, che ha toccato ogni aspetto della società di oltremanica. La decisione tra votare Leave (usciamo) o Remain (rimaniamo) spacca in due la nazione, cominciando appunto una crisi che imperversa ancora oggi, sette lunghi anni dopo. La mentalità del paese, la sua politica e la sua economia difatti non sarebbero state più le stesse. Sulla Brexit, i suoi inizi e soprattutto le sue conseguenze rimangono molte domande. Questo è il primo di una serie di articoli in cui InCronaca cercherà di raccontare gli effetti del drammatico referendum, a cominciare dalla sorte dei protagonisti di questa storia. Dov’erano in quel momento? Che fine hanno fatto?
David Cameron
È il 2015 e David Cameron, il primo ministro britannico, è in piena campagna elettorale con il suo Partito Conservatore contro Ed Milliband e i laburisti. Cameron ha grandi piani per il suo paese e intende rivitalizzarlo, ma i sondaggi presagiscono un confronto alla pari. Cameron, sotto pressione, si apre a un tema che nel regno di sua Maestà scotta: in caso della sua vittoria invocherà un referendum perché il popolo si possa esprimere sulla permanenza del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea. Ancora non lo sa, ma ha appena aperto il vaso di Pandora. Cameron infatti non vuole e non crede nel successo del neonato movimento Brexit, giudicandolo piuttosto come un’opportunità per strappare accordi più vantaggiosi con l’Europa. Una volta riconfermato alle urne e tornato trionfalmente a Downing Street, prima di iniziare il suo ambizioso programma governativo deve tuttavia mantenere la promessa fatta.
Il risultato del referendum distrugge in una sola notte la visione che Cameron ha per il futuro del suo paese. Sconfitto, “depresso” e profondamente umiliato, sapendo che «certe persone non mi perdoneranno mai», si trova costretto a dimettersi. In esilio dal mondo della politica ricopre ruoli dirigenziali in vari enti di beneficenza, scrive un’autobiografia e si ritrova al centro di uno scandalo di lobbying da cui riesce a malapena a districarsi. Il 13 novembre scorso, sette anni e quattro mesi dopo la sua ultima carica politica, nel tentativo di riportare fiducia e stabilità a un Partito Conservatore oramai allo sbaraglio, viene nominato Segretario di Stato per gli affari Esteri dall’attuale primo ministro Rishi Sunak.
Boris Johnson
Nel 2016 i sogni di Boris Johnson, sindaco di Londra e membro del parlamento da Conservatore, si stanno avverando. David Cameron, suo rivale per i vertici della politica britannica fin dall’università, è in profonda difficoltà con il referendum. Johnson potrebbe placare momentaneamente l’ego, appoggiare il suo primo ministro, serrare i ranghi del partito e ritagliarsi una posizione favorevole nel nuovo governo. Ma Boris Johnson non è una personalità semplice o scontata e questo percorso non lo stimola minimamente. Nell’esito del referendum vede invece l’opportunità di sfruttare un terremoto così violento e così esteso da permettergli di volare in solitaria, sopra le ceneri, fino alla carica ambita da sempre.
La sua campagna “a tradimento” per il voto Leave è aspra, personale e di enorme successo nonostante le “lampanti menzogne” che gli vengono rimproverate. Tuttavia, dopo la “vittoria” del referendum e le dimissioni di Cameron, Johnson sceglie di ritirarsi dalla corsa come suo successore. Le parole sono una cosa, i fatti un’altra: l’incubo di dover assumersi gli esiti della Brexit non rientra assolutamente nei suoi piani. Quando nel 2019 il governo May cade dopo appena tre anni, a causa delle enormi difficoltà che Johnson stesso aveva voluto evitare, approda al massimo potere dichiarandosi l’unica persona capace di «chiudere Brexit».
Il sogno di Boris Johnson, finalmente coronato a 55 anni, si interrompe quasi subito con l’arrivo del Covid-19. I suoi comportamenti durante la pandemia, culminati in palesi violazioni delle norme anticontagio con lo scandalo Partygate, scatenano una reazione viscerale nella popolazione del Regno Unito, non più disposta a perdonarlo come in passato. «Boris ci crede maleducati nel nostro rifiuto di trattarlo come un'eccezione alle regole, come una persona esente dalla rete di obblighi che invece lega tutti gli altri», scriveva Martin Hammond, direttore di collegio quando Johnson era a Eton. Il 6 settembre 2022 si dimette da primo ministro e un anno dopo da membro del parlamento. Lo si potrà vedere sul canale televisivo GB News come presentatore e commentatore delle prossime elezioni del Regno Unito e degli Stati Uniti.
Nigel Farage
Nel 2015 il capo del Partito per l'Indipendenza del Regno Unito (Ukip), Nigel Farage, è in ascesa. Il suo partito, di marginale importanza fino a ora, è reduce da ottimi risultati alle elezioni europee dell’anno precedente e, con il referendum alle porte, continua a crescere. Al ballottaggio in cui vincerà Cameron, Farage non viene eletto membro del parlamento e di conseguenza si dimette dal suo ruolo nel partito, che però lo implora di rimanere. Farage negli anni ha difatti legato intrinsecamente Ukip a se stesso. Le sue dimissioni durano solo tre giorni. Considerata la raison d’être del suo partito, non sorprende che la campagna di Farage per il voto Leave sia di gran lunga la più coinvolgente e, proprio come nel caso di Boris Johnson, ritenuta piena di menzogne. A lungo denigrato dalla casta politica britannica come una persona irresponsabile e poco seria, non si affilia agli euroscettici conservatori e laburisti, remando in ogni caso nella loro stessa direzione.
La vittoria nel referendum rappresenta l’apoteosi di Nigel Farage e del suo partito. Una settimana dopo, parlando al Parlamento europeo, si toglie tutti i sassolini accumulati nelle scarpe in 23 anni di carriera: «Quando arrivai qui 17 anni fa e dissi che volevo guidare una campagna per far uscire il Regno Unito dall’Unione Europea ridevate tutti di me. Ora non ridete più, vero?». Pochi giorni dopo annuncia che il suo ciclo politico è completo e si dimette dal partito. Insoddisfatto della Brexit proposta prima dal governo May e poi da quello Johnson, Farage torna in scena con un nuovo partito, il Brexit Party. Non ottiene nulla, ammette che «la Brexit è fallita» e nel 2021 abbandona nuovamente la politica. Sarà sulla prossima serie di “Sono una celebrità… Tiratemi fuori da qui!”, una sorta di “Grande fratello” nella giungla.
Jeremy Corbyn
Dopo le elezioni perse da Ed Milliband, Jeremy Corbyn prende controllo del Partito Laburista. Vuole nazionalizzare le utenze pubbliche, bloccare i tagli alla sanità e ai servizi sociali e astenersi da interventi militari all’estero. È un momento delicato, ma il nuovo leader, assieme alle sue politiche da “vera sinistra”, ispirano fiducia nella popolazione, in particolare tra i giovani, e gli iscritti al partito aumentano. Le sue posizioni non entusiasmano allo stesso modo i parlamentari laburisti meno estremi: dopo il suo mancato appoggio alle azioni militari proposte da Cameron contro l’Isis, Corbyn subisce una rivolta interna, che però non ha successo. Il partito avanza e riesce addirittura a strappare la città di Londra ai conservatori, insediando il sindaco Sadiq Khan. Ma la tempesta del referendum è già all’orizzonte.
La posizione di Corbyn durante la campagna Brexit è vaga e insoddisfacente. Mentre il suo partito si schiera a favore del voto Remain, lui critica apertamente l’Unione Europea, che vede in realtà come un “complotto di uomini d’affari”. Il risultato finale per i laburisti è inaccettabile, tanto che si rivoltano nuovamente contro il capo partito. «Questo referendum è stato un banco di prova per le sua capacità da leader, Jeremy ha fallito questa prova», dice la parlamentare Margaret Hodge. Corbyn riesce tenuemente a difendere la sua posizione ma le crepe nel Labour sono diventate voragini. Perde due elezioni nazionali, la prima contro Theresa May nel 2017, la seconda contro Boris Johnson nel 2019 - incolpa la Brexit e le divisioni interne tra i laburisti per le sconfitte, si dimette da capo del partito. Rimasto membro del parlamento, a marzo il comitato esecutivo nazionale laburista ha annunciato che non lo candiderà come parlamentare alle prossime elezioni.
La Brexit come si vede non ha risparmiato neanche uno dei suoi protagonisti.
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