Quindici
Non c’è solo Gaza o l’Ucraina. Non si parla solo del Myanmar, della Somalia o del Sahel: il mondo è una miccia, una polveriera che rischia di saltare alla prima scintilla. Il rischio apparente è di camminare su una santabarbara e che ogni inciampo possa trasformarsi in un passo falso esiziale. Il cardinale Matteo Zuppi ha parlato in diverse occasioni di oltre 170 conflitti attualmente attivi; un dato che però non ha un facile e immediato riscontro empirico, sia per la difficoltà di trovare una chiave di lettura unica, sia per la mancanza di una fonte precisa. La cifra è spannometrica, il numero cambia continuamente; aumenta e diminuisce a seconda dei diversi criteri con cui si definiscono i contorni di un conflitto. «È difficile categorizzare un conflitto, perché non c’è un modo univoco per identificarlo – spiega Giampiero Giacomello, docente di Studi strategici dell’Università di Bologna – ci sono quelli interstatali, le guerre civili e quelli che vedono ingerenze e interventi esterni. L’università svedese Uppsala, per esempio, parla di conflitto se ci sono almeno mille vittime accertate, al di sotto di questo numero si fa riferimento ad altro».
Partendo da questo presupposto, quello che ha precipitato Israele nel terrore all’alba del 7 ottobre rispetta perfettamente i crismi. L’attacco frontale (nominato Al-Aqsa Flood) che il gruppo palestinese Hamas, corroborato dal braccio armato delle brigate Ezzedin di al-Qassam, ha lanciato, ha dato vita a un conflitto in piena regola. Si tratta di un’azione congiunta e tripartita da terra, aria e mare, che ha annichilito le rinomate difese israeliane. La scelta del momento non è stata casuale: gli uomini capitanati da Mohammed Deif hanno deciso di attaccare di Shabbat, il giorno di riposo, il sabato ebraico; ma non è tutto. Era anche il giorno successivo al cinquantesimo anniversario dello scoppio della guerra dello Yom Kippur del 1973, in cui gli eserciti di Egitto e Siria attaccarono improvvisamente Israele. Il calendario ironicamente non lesina ricorrenze: era infatti anche la fine di Sukkot, la Festa delle capanne a cui è legato il ricordo della permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dal giogo egizio.
Il numero dei morti dall’inizio di questi scontri è impietoso: almeno 3.200 in poco meno di due settimane. La risposta di Israele non si è fatta attendere: diversi gli attacchi missilistici e i raid aerei che hanno esteso pericolosamente la zona del conflitto anche alla Cisgiordania, Siria e Libano. Il 17 ottobre le zone limitrofe dell’ospedale di Gaza, l’al-Ahli Arab, sono state colpite da un missile che ha fatto diverse vittime e sull’episodio è stata aperta un’inchiesta internazionale. Hamas ha puntato il dito contro Israele sostenendo la tesi della volontarietà dell’attacco e parlando di un grave crimine di guerra. Accuse rigettate tempestivamente dal primo ministro Netanyahu che ha parlato di barbarie commessa dal terrorismo palestinese. «Il rischio – aggiunge Giacomello – è che dopo questo fatto il conflitto si allarghi ancora, coinvolgendo gli attori che fino ad ora sono stati dietro le quinte, ovvero Iran, Hezbollah e Usa. Per il momento però nessuno sembra voler rischiare un’escalation e permane un equilibrio omeostatico». Le tensioni nella striscia di Gaza hanno scalzato, almeno per il momento, dalle prime pagine dei giornali il conflitto russoucraino, che dal 24 febbraio dello scorso anno ha monopolizzato l’attenzione internazionale. Da allora sono stati circa 10mila i civili morti e decine di migliaia di feriti, come riporta un rapporto sui diritti umani delle Nazioni unite. Sembra profilarsi all’orizzonte quella che Papa Francesco ha definito come la terza guerra mondiale a pezzi: un quadro frammentario e frammentato che vede coinvolti diversi Paesi e pressoché tutti i continenti. È in questa tela intricata, in questo gioco nichilista di trama e ordito, che si staglia un conflitto all’apparenza sopito e silente, ma che in realtà continuava da anni: quello del Nagorno-Karabakh, rinfocolato dall’attacco dell’Azerbaijan del 19 settembre scorso. Una storia che affonda le radici negli anni venti del Novecento, quando i sovietici decisero di accorpare la regione alla Repubblica socialista sovietica azera, e che si è apparentemente conclusa il 20 settembre dopo un secolo con la resa del governo separatista e la sua sostanziale fine.
Un conflitto si chiude, ma altri s’inaspriscono. Basta spostare il dito sulla cartina del mondo e arrivare in Africa, un continente che da tempo si configura come l’agone di numerosi scontri. Il Sahel non ha pace da più di dieci anni: il terrorismo jihadista è ormai dilagante, ed eventi come il colpo di Stato in Niger del 26 luglio scorso – uno degli ultimi insieme a quello del Gabon – non fanno altro che spianare la strada alla corruzione e alla criminalità e allo sgretolarsi di quel retaggio storico, un po’ svigorito, che è la Françafrique. Un conflitto armato, questo, che ha portato quasi tre milioni di persone a fuggire in cerca di riparo. La politica instabile e l’influenza sempre crescente dei militanti del gruppo Wagner hanno foraggiato il ritorno in auge delle forze armate maliane (Fama). Si parla di quasi 10mila vittime nei soli primi sei mesi di quest’anno. Secondo il mensile Nigrizia nel Mali e nel Burkina Faso la violenza jihadista è cresciuta del 2000% dal 2007 ad oggi, una situazione che si sta verificando anche in Somalia. Secondo un rapporto dell’Africa center for strategic studies, infatti, sono state 6.225 le vittime lo scorso anno per mano del gruppo jihadista sunnita al-Shabaab, circa 4mila in più rispetto all’anno precedente. La violenza però non conosce limiti o confini e muta (solo apparentemente) forma.
Nel Myanmar, per esempio, un colpo di stato militare – capitanato dal generale Min Aung Hlaing – l’1 febbraio 2021, ha rovesciato e cancellato l’esito dalle elezioni del novembre dell’anno prima, in cui a spuntarla è stata la Lega nazionale per la democrazia, guidata dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. I militari da anni occupano gli scranni più alti del parlamento birmano, ventilando soltanto piccoli spazi di una democrazia manierata e posticcia. La realtà nuda e cruda è che l’economia è in crisi e milioni di persone vivono di inedia. Per tutto questo l’adagio latino “si vis pacem, para bellum” continua a risuonare come un peana, un canto di guerra e di vittoria, ma che in realtà ha le fattezze di una marcia funebre verdiana.
Marines americani che compongono una linea da fuoco. Licenza Creative Commons
Questo articolo è stato pubblicato nel numero 9 del "Quindici", supplemento bisettimanale di InCronaca, il 19 ottobre