Immigrazione
È notizia di questa mattina la decisione del governo Meloni di aumentare il numero dei Cpr sul territorio (da 9 a 21) e soprattutto il tempo di permanenza in questi luoghi (da 6 mesi a 18). Ma non solo, sono mesi che sui giornali si leggono notizie a proposito del sovraffollamento in cui versano la maggior parte dei centri di accoglienza, compresi quelli in Emilia-Romagna. Sul tema ecco l'intervista di InCronaca ad Antonio Buzzi, 53 anni, Presidente di Confcooperative Federsolidarietà dell’Emilia- Romagna.
Ci può descrivere l’attuale situazione sul territorio?
L’Emilia-Romagna sta attraversando un momento di grande difficoltà. Infatti, dal 2019, con il Decreto Flussi di Salvini, la rete di accoglienza per le persone straniere è stata completamente smantellata. Nello specifico a subirne maggiormente le conseguenze è stato il sistema di accoglienza diffusa, quello più presente sul territorio; di conseguenza la capacità emiliano-romagnola è diminuita in maniera sostanziale.
Quali sono stati i territori più colpiti?
Alcuni territori, come Reggio Emilia e Modena, grazie a sistemi territoriali molto coesi e a prefetti lungimiranti, sono riusciti a mantenere tutti i percorsi di accoglienza, compresi quelli di accoglienza diffusa. Qui si è potuto continuare ad accogliere molte persone attraverso percorsi adeguati con lo scopo di garantire un inserimento lavorativo e sociale di chi attraversa questi luoghi. In altri territori invece, come la Romagna e Bologna, il sistema dell’accoglienza è stato molto depauperato e oggi si è in grande difficoltà a trovare dei posti adeguati.
Di quanto è diminuita l’accoglienza?
Tralasciano i pochi territori che sono riusciti a mantenere in piedi il sistema, negli altri territori l’accoglienza diffusa di fatto non esiste più. Prima del decreto sicurezza garantiva l’accoglienza a circa il 60% delle persone straniere presenti sul territorio; oggi sono praticamente tutte accolte in grandi gruppi, alberghi o stabili che consentono la presenza di molte persone contemporaneamente.
Sempre per quanto riguarda il sistema dell’accoglienza diffusa, si sono mai registrati episodi di violenza o criminalità?
Assolutamente no. Purtroppo sono le accoglienze di massa che creano disagi, perché non è possibile seguire le persone. Spesso, inoltre, vengono collocate persone di etnie diverse nello stesso luogo e questo può generare conflittualità, perché sappiamo che nel mondo i conflitti esistono. L’accoglienza diffusa invece consisteva in appartamenti sparsi sul territorio dove venivano accolte massimo 4-5 persone che avevano anche la possibilità di capire come si abita nel nostro Paese.
Attualmente quali sono i problemi maggiori che vivono le cooperative?
Il problema principale è il fatto che il sistema cooperativo è in gran parte uscito dalla gestione dei percorsi migranti. I fondi tagliati, infatti, sono stati soprattutto quelli destinati a garantire un percorso integrativo sia a livello sociale che lavorativo e le cooperative si occupavano principalmente di questo; relegarli a sole strutture alberghiere ha determinato l’uscita di molte cooperative dal percorso di accoglienza. Quelle che sono rimaste lo hanno fatto perché sono riuscite a mantenere dei percorsi di integrazione. Noi chiediamo che si smetta di fare demagogia e si guardi al fenomeno attraverso un dato di realtà: non esistono barriere abbastanza grandi per fermare la disperazione e le persone migranti troveranno sempre il modo per arrivare nei Paesi in cui pensano di trovare una speranza.
La presidente Meloni ha recentemente pubblicato un video in cui afferma che i numeri degli sbarchi sono insostenibili. Eppure guardando ai dati non si tratta di numeri così lontani dal 2016 o 2017. Perché si continua a parlare di emergenza e cosa è accaduto in questi anni?
Solitamente si parla di emergenza quando si vuole descrivere un fenomeno episodico che accade all’improvviso, e ovviamente non è questo il caso. Sono almeno 20 ani che siamo interessati da fenomeni migratori, come tutti i Paesi occidentali, e bisogna capire che si tratta di un fenomeno che riguarderà sempre i Paesi più benestanti. Prima del decreto sicurezza si usciva dai Cas o dai Sai con un lavoro e reali possibilità abitative. Oggi non è più così. Si è scelto di privilegiare i grandi centri e tutta la spesa per l’integrazione è stata tagliata. Per questo oggi siamo in difficoltà pur con dei numeri che sono molto simili a quelli che eravamo abituati a gestire negli anni dal 2014 al 2017.
Pensa che anche il nuovo decreto, con la decisione di aumentare il numero dei Cpr e il tempo di permanenza in questi luoghi, oltretutto collocati lontani dai centri abitativi, vada in questa direzione?
Sì, assolutamente. Penso che siamo tornati a fare demagogia, invece di parlare di questioni reali. Finché tratteremo questo fenomeno solo come un’emergenza e soprattutto un problema, senza renderci conto che l’immigrazione, per un Paese come l’Italia, è soprattutto un’opportunità, non potremo mai risolvere questa situazione. Ci sono sistemi produttivi che stanno soffrendo la mancanza di mano d’opera. Le dirò di più, anche quando il sistema dell’accoglienza diffusa era in piedi e tutte le persone che passavano per i vari centri trovavano un lavoro, non riuscivamo a esaurire la richiesta delle varie aziende. Invece continuiamo a gestire il fenomeno in maniera quasi detentiva, perché effettivamente queste persone sono detenute nell’attesa di rimpatriarle. Il problema è che i rimpatri sono possibili solo se vi è un accordo bilaterale: in tutti questi anni siamo riusciti a costruirli solo con Egitto, Albania e Tunisia, non è chiaro perché le cose dovrebbero cambiare a breve. Questo significa che, finito il momento di detenzione, tutte le persone detenute verranno rilasciate sul territorio. E si tratterà di persone che avranno trascorso 18 mesi in un centro dove non è stato consentito loro di far nulla, dove non si è investito per l’integrazione; non avranno soldi, non avranno documenti e non avranno un’abitazione. Persone che di conseguenza o verranno sfruttate da parte della manodopera irregolare o finiranno nei percorsi di microcriminalità come già oggi succede. Aumentare il periodo di detenzione e il numero di Cpr sul territorio significa investire tanti soldi. Ogni persona al giorno costa 50 euro e si prevede una spesa di circa 100 milioni di euro per costruire nuovi Cpr, soldi che sarebbero potuti essere investiti diversamente.
Un tema molto delicato è quello che riguarda i minori non accompagnati. Sono aumentati nel corso del tempo e ci sono strutture adatte per accoglierli?
Si tratta di un numero, quello dell’arrivo di minorinstrainieri non accompagnati, in continua crescita. Attualmente le strutture sono del tutto inadeguate. Anzi, a oggi vengono quasi sempre accolti in strutture per adulti in maniera inappropriata perché non ci sono risorse e posti pensati per loro. Non sono, dunque, previsti percorsi adatti alla loro età; i minori che arrivano hanno, infatti, un’età sempre più bassa. Se prima il range era soprattutto tra i 16 e i 18 anni, oggi si tratta di bambini e bambine sui 12 o 13 anni. Pensiamo ai nostri figli adolescenti abbandonati in un Paese straniero senza alcuna conoscenza e senza nessuna rete di sostegno, in un Paese che, tra l’altro, non li considera da tutelare come minori. Noi abbiamo sottoscritto la carta dei diritti dell’Onu per l’infanzia e abbiamo il dovere di adempiere questi impegni.