Boxe

Da piccola Pamela Malvina Noutcho Sawa non amava il pugilato. «Mio fratello, grande appassionato, guardava tutti i match che riusciva a trovare. Litigavamo sempre, perché io volevo vedere i cartoni animati». Ora Pamela Malvina, 31 anni, è dall'otto settembre la nuova campionessa italiana dei pesi leggeri, la prima bolognese nella storia a guadagnare questo titolo. Per l’occasione, il sindaco Lepore e l’assessora allo sport Roberta Li Calzi le hanno consegnato una targa speciale a Palazzo D’Accursio. Pamela Malvina è originaria del Camerun. Arrivata a Perugia insieme alla famiglia a otto anni, oggi vive Bologna, dove ha studiato, ed è infermiera all’Ospedale Maggiore. È stato proprio il tirocinio universitario ad avvicinarla al mondo della boxe, un colpo di fulmine scattato quasi per caso. La sua è la storia di una ragazza normale, che supera sia il binomio pugile-infermiera, sia qualsiasi etichetta che vorrebbe relegarla alle sue origini camerunensi. Superando ostacoli e lottando sia dentro che fuori il ring, Pamela Malvina insegue i suoi sogni e ha fame di vittoria.

 

Qual è il percorso che l’ha portata a essere qui oggi?

«Sono nata in Camerun nel 1992. Mi sono trasferita in Italia nel 2000, all’età di otto anni. Mio padre era studente magistrale di Ingegneria dell’Università per stranieri di Perugia, ma ha abbandonato il percorso per cominciare a lavorare e mantenere la famiglia. Da quando io e la mia famiglia ci siamo ricongiunti con lui, ha sempre fatto l’operaio metalmeccanico. Una storia ben lontana da chi mi vorrebbe arrivata in Italia col barcone: sono giunta con l’aereo accompagnata da due hostess perché ero minorenne».

 

Com’è il rapporto con la sua famiglia? L’hanno supportata nella sua scelta sportiva?

«Siamo sei in tutto: io, mio padre, mia madre, che fa la collaboratrice scolastica, mia sorella e due fratelli. Il più piccolo è nato in Italia. Siamo una famiglia molto unita. I miei genitori, entrambi lavoratori, non mi hanno mai fatto mancare niente. Mio padre era contentissimo quando ho detto che avrei voluto diventare pugile, mio fratello, fan sfegatato, mi ha sempre supportato e segue tutti i miei match. Mia mamma ha avuto le solite preoccupazioni da mamma, ma anche lei mi ha fin da subito fatto sentire la la sua vicinanza».

 

Com’è stata la sua infanzia? Ha mai subito episodi di discriminazione?

«Un’infanzia normale. Ho fatto elementari e superiori, Liceo scientifico, a Perugia. Da piccola mi prendevano in giro per i muscoli e la mia corporatura, chiamandomi Mike Tyson».

 

Pensa sia questo che l’ha spinta a colpire il sacco e iniziare pugilato?

«No, spesso si pensa che il pugilato sia uno sport “di sfogo” e che chi lo pratica abbia della rabbia repressa di cui liberarsi. Non è il mio caso, anzi, penso che la boxe insegni la calma, la costanza e la dedizione. Senza di esse non si va avanti. Il mio, poi, è uno stile molto difensivo: cerco di parare i colpi e attaccare al momento giusto. È un po’ anche un riflesso della mia personalità».

 

Come ha scoperto il pugilato?

«Casualmente, quando facevo tirocinio per scienze infermieristiche. Lavoravo in un centro di assistenza per i senza fissa dimora. C’era una saletta dedicata a questo sport e mi hanno chiesto di provare, da lì è stato un colpo di fulmine. Ho seguito questa passione dal 2015, allenandomi con la Bolognina Boxe, iniziando a combattere nel 2017 fino a vincere il campionato di boxe olimpica nel 2021 e il titolo per la boxe professionistica quest’anno».

 

È molto legata al quartiere della Bolognina?

«Quando sono in Bolognina mi sento a casa. Io sono un’infermiera dell’Ospedale Maggiore e in molti mi hanno consigliato di trasferirmi vicino al mio luogo di lavoro, ma non ce la farei».

 

È un binomio interessante quello tra infermiera e pugile professionista

«Sì, perché sia nella mia professione di infermiera che in quella di pugile le mie mani sono fondamentali. Quando medico un paziente devono essere delicate, quando combatto devono colpire con decisione».

 

Ha ottenuto la cittadinanza dopo un percorso burocratico tortuoso e senza di essa non avrebbe potuto competere, e vincere, il titolo italiano. Una riflessione su questo?

«Ho ottenuto la cittadinanza nel 2022 e questo ha limitato la mia carriera sportiva e anche la mia vita. Per esempio, quando combattevo nel campionato dilettantistico, una pugile che avevo sconfitto era stata chiamata in nazionale, mentre io no, perché non ero italiana. L’ho vissuto come una profonda ingiustizia, ho avuto una crisi di pianto con il mio allenatore e ho provato tanta frustrazione».

 

Com’è stato ottenere la cittadinanza?

«È stato un ricongiungimento, come se finalmente fossi riuscita a riappropriarmi di un pezzo mancante della mia vita. Mi ha dato finalmente la possibilità di sentirmi italiana a tutti gli effetti».

 

Pensa di essere stata agevolata nell’ottenimento per meriti sportivi?

«Mi auguro di no, la cittadinanza non deve essere ottenuta con il merito, ma è diritto di ogni persona che vive e lavora qui e contribuisce al tessuto economico e sociale».

 

 

 Foto di Riccardo Benedet