le storie

Sainey Fatty, difensore della Fortitudo White Sox di Bologna (foto concessa da Lauro Bassani)

 

«La lezione più importante che mi ha insegnato il baseball è che tutto è possibile. Ho imparato a trarre il positivo anche da qualcosa di negativo, come la malattia che mi ha fatto perdere la vista. Non avrei mai creduto che per un cieco fosse possibile praticare uno sport complicato come il baseball eppure, dopo averlo provato sulla mia pelle, la realtà ha superato ogni aspettativa. Era il 2018 quando ho fatto la mia prima prova e da allora non sono più riuscito a smettere». Così racconta Sainey Fatty, giocatore della Fortitudo Bologna White Sox, società composta da atleti non vedenti e ipovedenti.
Il baseball per ciechi nasce proprio in Italia, a Bologna, dove nel settembre del 1993 due leggende dello sport sul diamante, Alfredo Meli e Umberto Calzolari, ebbero l’intuizione di creare una versione di questa disciplina accessibile anche a chi non può vedere. «Alfredo era la mente, colui che aveva l’intuizione, Umberto il braccio, colui che la realizzava», spiega Lauro Lanzarini, attuale coach della White Sox ed ex compagno di squadra dei due fondatori dell’AIBXC (Associazione Italiana Baseball per Ciechi). L’approccio di Meli e Calzolari fu, a detta di tutti, il più rispettoso e corretto possibile. Dialogarono a lungo con i primi ragazzi non vedenti interessati a questa attività innovativa. Fu un percorso lento e condiviso. I due veterani portarono la loro conoscenza tecnica, mentre i non vedenti contribuirono con la loro esperienza diretta, studiando insieme le soluzioni più adatte per questi ultimi. Ci volle tempo per definire regole ufficiali che adattassero il gioco tradizionale americano senza snaturarlo, garantendo al contempo la massima sicurezza agli atleti.
Dopo una lunga fase di sperimentazione, si arrivò a una soluzione condivisa. La pallina fu progettata per essere udibile da attaccanti e difensori: realizzata in gomma dura, presenta sei fori svasati sulla superficie, al cui interno sono inseriti due sonagli di ottone nichelato. Il terreno di gioco, invece, è un campo da baseball regolarmente omologato, ma adattato alle esigenze degli atleti. La prima base, per esempio, un cuscino in plastica dura, è dotata di una cassetta elettronica che emette un suono che guida i corridori verso la seconda base. E la battuta? Non avviene in modo tradizionale, è il lanciatore ad autobattersi la pallina. Dopo aver battuto, deve aggirare la propria base mantenendola alla sua sinistra e correre verso la seconda, percorrendo circa 54 metri. Vicino a ogni base ci sono gli unici membri vedenti delle squadre, gli assistenti, che battono paletti di legno sulla propria stazione per fornire un riferimento uditivo ai corridori. Quando un difensore recupera la palla, il ricevitore urla il numero della base a cui intende lanciare. Se la palla arriva prima del corridore, quest’ultimo è eliminato; in caso contrario, è salvo. Nel tempo, alcuni aspetti del gioco sono rimasti invariati, come il numero di giocatori in campo per squadra (cinque), mentre altri sono stati modificati per tenere il passo con la crescita degli atleti. Per esempio, il limite del fuori campo è stato recentemente esteso da 54 a 60 metri, a testimonianza del miglioramento generale nelle capacità di battuta.
Pasquale Di Flaviano, capitano in carica della Fortitudo Bologna White Sox, è stato tra i primi a sperimentare il baseball per ciechi e non dimenticherà mai la prima partita ufficiale giocata il 16 ottobre 1994. La sfida tra le prime due squadre, i Red Sox e i White Sox, entrò nella storia dello sport. I cimeli di quell’incontro sono oggi conservati nella Hall of Fame della Mlb a Cooperstown. «Siamo partiti in tre, con il dubbio che il blind baseball non avrebbe funzionato. E invece, dopo trent’anni, siamo qui a praticare uno sport che oggi conta 11 squadre in Italia», racconta con orgoglio. Un orgoglio che va oltre i successi personali, perché «vedere compagni che all’inizio non sapevano cosa significasse correre, riuscire ora a farlo grazie al baseball, è una vittoria più grande di qualsiasi trofeo». E la storia della Fortitudo White Sox è davvero una storia di successi: la società bolognese vanta sei scudetti, quattro Coppe Italia e due tornei di fine stagione, un palmarès che rende pienamente onore a una delle prime squadre di baseball per ciechi nate in Italia. «Il mio obiettivo è superare il record di campionati vinti detenuto dai Thunders di Milano. È una sfida complicata, ma se colmiamo il gap organizzativo che ancora ci separa, possiamo farcela», ammette Giorgio Napoli, presidente e giocatore della squadra.
Il percorso di ogni membro della Fortitudo White Sox è diverso, ma un filo comune lega molti di loro: l’arrivo della retinite pigmentosa, una malattia degenerativa ereditaria che causa la progressiva perdita della vista. Anche Giorgio, ipovedente fin dalla nascita, ha visto peggiorare la sua condizione nel tempo. A 31 anni, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, è stato costretto ad abbandonare il sogno di una vita a Londra, città in cui si era appena trasferito e che lo aveva arricchito umanamente e professionalmente. D’improvviso il buio oltre la siepe lo ha gettato in un profondo sconforto. «Ho vissuto 15-20 giorni terribili, non so se ero in depressione o ci stavo andando», confessa. La famiglia e la fede lo hanno sostenuto, impedendogli di cadere nell’abisso. La svolta arrivò grazie a una vecchia conoscenza, anche lei affetta dalla stessa patologia, che gli parlò dell’Istituto Cavazza di Bologna e della possibilità di seguire un corso per centralinisti ipovedenti. «Arrivai a Bologna nel 2016 con l’unico obiettivo di prendere la qualifica e tornare a Salerno, la mia terra d’origine. Non avrei mai immaginato che una semplice prova di baseball avrebbe cambiato la mia vita», racconta Giorgio. E così fu: dal trasferimento sotto le due Torri nacque una nuova carriera sia come atleta che come simbolo del blind baseball in Italia. Per Giorgio arriveranno in successione le opportunità come consigliere dell’Aibxc e poi, dal luglio 2024, quella come presidente della Fortitudo White Sox. Un doppio ruolo che, ammette col sorriso, «ho accettato perché nessuno voleva farlo», ma che ha preso con la massima serietà. «Lavoro affinché chi verrà in futuro a contatto con la nostra realtà trovi il giusto mix di organizzazione, accoglienza a braccia aperte ma anche competitività».
Sì, avete sentito bene, tutti gli intervistati della White Sox hanno sottolineato come la componente agonistica nel baseball per ciechi sia cresciuta negli anni. Un aspetto di questo sport che non tutti apprezzano, come, per esempio, Riccardo Matteucci, ex giocatore con la maglia ritirata della Fortitudo Baseball Bologna e oggi assistente allenatore della White Sox. «A volte si creano situazioni troppo “calcistiche”, un agonismo eccessivo che non mi piace. La mia priorità resta sempre far divertire i ragazzi e creare un clima di armonia anche con gli avversari, stringersi la mano a fine partita e magari andare tutti insieme al bar. Poi, ovviamente, quando vinci ti diverti ancora di più, e noi ultimamente ci siamo divertiti parecchio», racconta. La squadra bolognese ha conquistato tre scudetti consecutivi tra il 2021 e il 2023, un periodo di successi che ha regalato gioie indimenticabili ai membri di questa realtà.
Il primo titolo, in particolare, arrivato dopo 17 anni dal trionfo del 2004, è considerato da molti della White Sox il ricordo più emozionante con questa maglia. «Prima della gara eravamo davvero tesi. Non volevamo perdere l’occasione di entrare nell’albo d’oro. Per molti sarebbe stato il primo tricolore. Io, in particolare, volevo lasciare un’impronta e posso dire con orgoglio di esserci riuscito. Grazie a una mia battuta abbiamo conquistato la vittoria», ricorda emozionato Valter D’Angelillo, battitore per eccellenza della formazione bolognese. Non è stato facile, ma come spiega il compagno Filmone Yemane, «lo scudetto del 2021 è stato il coronamento di un percorso, il traguardo che ci siamo meritati dopo anni in cui spesso sfioravamo il successo per poi vederlo sfumare all’ultimo momento». Per Filmone, la chiave della vittoria è stata la sinergia creata all’interno del gruppo, un aspetto su cui lui stesso ha lavorato, facendo da paciere ogni volta che si creavano tensioni. Questo è stato possibile grazie alla sua qualifica da mediatore, ma anche alla sua lunga esperienza da veterano della White Sox. Sono passati ormai 17 anni da quando giunse in Italia dall’Eritrea, grazie a un'associazione che lo portò a Bologna per ricevere delle cure mediche. 17 anni dal tragico incidente in cui durante una semplice passeggiata con gli amici nel suo paese natale finì accidentalmente su una mina antiuomo. Filmone quel giorno perse una falange, la vista, ma soprattutto le persone con cui aveva condiviso l'infanzia. Una volta terminato il periodo in ospedale, il giovane rimase in Italia per coltivare gli studi e la passione per lo sport. A soli 15 anni scoprí il baseball, innamorandosene e preferendolo ad altre attività come l’atletica e l’arrampicata. Grazie alla White Sox, la sua nuova famiglia, ha riscoperto il piacere di correre e giocare, trovando il contesto ideale per esprimere tutte le sue qualità. Dopo anni è tornato in Eritrea e, ripensando al viaggio che lo ha portato fin qui, tutto ciò gli sembra un sogno a occhi aperti.

 

L'articolo è tratto dal Quindici n. 6 del 25 giugno 2025