lavoro

Foto di Sofia Pellicciotti
«Io li conoscevo tutti di persona» dice Salvatore Fais, per vent’anni ferroviere alle Officine Grandi Riparazioni e sindacalista, mentre indica le croci e i nomi sul retro dello striscione per le vittime dell’amianto a Bologna dagli anni Settanta ad oggi (https://incronaca.unibo.it/archivio/2025/04/28/amianto-ricordiamo-i-300-morti-alle-ogr). «Però è da aggiornare — continua — perché l’anno scorso ne sono morti altri dodici». I sintomi dell’esposizione all’amianto, infatti, si manifestano anche dopo molti anni, e si evolvono in tumori che possono colpire i polmoni, la laringe, le ovaie. «Anche dopo 50 anni — precisa l’ex ferroviere —. Un mio amico ha scoperto un mesotelioma a 81 anni. E ce ne sono tanti altri, c’era un collega che non respirava, e la sofferenza era tanta che si è sparato. Oppure chi è andato all’estero per trovare una cura, ma una volta, quando trovavano l’acqua nei polmoni, non c’era tanto da fare».
Una polvere che non lascia neanche il privilegio di invecchiare, che a distanza di anni torna a tormentare le persone che ci sono state a contatto, inconsapevoli della sua pericolosità (https://incronaca.unibo.it/archivio/2025/04/28/nelle-carrozze-di-asbesto-ci-mangiavamo). «C’è un senso di impunità, perché nonostante i responsabili siano stati chiamati in causa e riconosciuti, la storia dell’amianto a Bologna è stata sepolta». O almeno, si è provato a nasconderla, e la chiusura e il trasferimento delle Officine sembrano voler dire questo. «Vogliono metterci a tacere — prosegue Fais — e il tempo gli sta dando ragione, la gente muore, e tutti quelli che conoscevano questa storia se ne stanno andando». La preoccupazione è che saranno sempre in meno a ricordarla e a tramandare la memoria degli operai. «Alla fine hanno vinto loro», conclude il ferroviere, lo sguardo fisso allo striscione con i nomi dei colleghi.
Al centro, Salvatore Fais. Foto di Sofia Pellicciotti
Salvatore Fais ha passato tutta la vita in fabbrica: «Avevo trent’anni e due figli, quando ho vinto il concorso per le Ferrovie. Avevo già lavorato in un ambiente siderurgico, lì si lavorava in una totale sicurezza. A Bologna era un disastro, mi dicevo “vado via” poi alla fine il rapporto umano era eccezionale e sono rimasto». Dopo le prime morti dei colleghi, ha cominciato a raccogliere i santini, la documentazione, e ha creato un museo e un monumento alle vittime dell’amianto, «anche se il datore di lavoro non voleva che si mettesse sulla lapide il nome amianto», ricorda.
Di incidenti sul lavoro, ancora oggi, si parla quotidianamente. La sicurezza è un tema che è sempre stato caro a Fais: «Ho fatto il responsabile dei lavoratori per la sicurezza, ci ho sempre tenuto, sin da quando ho iniziato. La morte sul lavoro non esiste. Gli operai muoiono quando qualche procedura viene bypassata. Le aziende se ne fregano e non controllano i lavoratori». C’è una responsabilità oggettiva dei datori di lavoro, e non del lavoratore. Ci sono dei meccanismi consolidati, prescritti per legge, che devono essere applicati, e anche se esistono sempre i casi limite, «si tratta di veri propri omicidi. Il datore di lavoro dovrà risponderne sempre, il problema è che non ne risponde mai». Rispetto a trent’anni fa, aggiunge, oggi è più difficile perché «si demanda la responsabilità ad altri, c’è un discorso di appalti, e subappalti vari».