La giornata

Susanna Zaccaria, la presidente della Casa delle donne (foto concessa dall'intervistata)

Aumentano le richieste d’aiuto e diminuiscono donne e bambini ospitati nei rifugi sicuri. Questo è il risultato dell’ultima raccolta dati condotta dalla “Casa delle donne”, centro antiviolenza bolognese attivo dagli anni ‘90, vero e proprio luogo di riparo per coloro che subiscono abusi della città. Dal 1° gennaio al 31 ottobre 2025, le porte del centro hanno ricevuto le chiamate di 622 nuove donne, 47 in più rispetto alle 575 che sono arrivate in tutto il 2024 (+8,2%), mentre le assistite nei percorsi di sostegno rimangono stabili, passando dalle 303 dell’anno scorso alle attuali 306. Il numero totale delle persone assistite è salito da 878 nel 2024 a 931 di quest’anno, cioè 53 in più (+6%).

Sono in diminuzione anche gli ospiti delle case rifugio, strutture sicure dove le vittime vanno a vivere temporaneamente se rischiano di subire ulteriore violenza. Tra le loro mura, si contano 68 donne (tre in meno a fronte del 2024) e 45 minori (uno in meno), per un totale di 112 protetti. Importante sottolineare anche la prospettiva storica, che riflette una continuità inquietante. Dal 1991 ad oggi, ben 16.698 donne hanno chiesto aiuto alla Casa delle donne, cioè 491 ogni anno; l’oscillazione di gennaio-ottobre 2025 supera la media di quasi duecento unità, e rimarca la sopravvivenza di un fenomeno che resta attuale e diffuso.

Susanna Zaccaria, presidente della Casa delle donne, commenta le rilevazioni del centro nel contesto attuale del fenomeno, considerando anche l’inefficacia in cui spesso incappano le misure attive per prevenire maltrattamenti e femminicidi.

Come dobbiamo interpretare questi numeri?

«Quello che abbiamo vissuto è un aumento sensibile delle donne che ci contattano per la prima volta, le quali sono comunque la piccola parte rilevabile di un fenomeno sommerso. Anche se i numeri sono stabili da diversi anni, per noi si tratta comunque di un carico importante: le nostre operatrici di accoglienza seguono contemporaneamente dai 35 ai 40 percorsi, quindi è un'enormità. Tuttavia, più segnalazioni nuove sono frutto di una migliore attività di sensibilizzazione, perché di violenza si parla molto di più di una volta, e dunque le persone sono molto più spinte a chiedere aiuto».

Molte donne che chiedono aiuto e denunciano, però, finiscono per subire lo stesso violenze, e alcune ci rimettono la vita. Cosè che non funziona, in questi casi?

«Secondo me c’è un equivoco di fondo. Si pensa che la soluzione sia solo la denuncia, con tante campagne vanno in questa direzione. Purtroppo non è così, perché denunciare non basta. Chiedere aiuto è sicuramente un primo passo fondamentale. Da solo, però, non è sufficiente, perché non riesce ad arginare del tutto i pericoli a cui le vittime sono sottoposte. Ma devo dire che negli ultimi anni la legge contro le violenze è stata rafforzata, soprattutto sulle restrizioni cautelari o obblighi di allontanamento».

E quale sarebbe la corretta modalità da seguire per proteggere la vittima?

«Bisogna fare una corretta valutazione del rischio e instaurare una collaborazione tra centri antiviolenza e forze dell’ordine. Il percorso di protezione è arduo e composto da tanti passi, dalla prima accoglienza alla permanenza nei rifugi sicuri, che sono di diversa intensità a seconda della valutazione del rischio, appunto. Nei casi di maggiore pericolosità, ad esempio, le donne vengono accolte in rifugi appositi per evitare che la loro vita sia messa a rischio. Qualora questo non avvenga, la vittima può ricadere nel ciclo di maltrattamento da cui cerca di uscire».

Lei prima ha parlato di equivoco. Cosa manca al dibattito pubblico per affrontare la violenza di genere senza inciampi simili?

«I temi che orbitano attorno alla violenza di genere ci sono nel dibattito pubblico, ma vengono spesso banalizzati e le soluzioni proposte sono vendute come immediatamente risolutive. Questo hanno fatto anche alcuni membri del Governo, che hanno dimostrato di non essere consapevoli del ruolo di certi interventi e misure nella lotta contro la violenza di genere. In altre parole, nell’orientamento governativo prevale un’ottica punitiva e securitaria».

Ha in mente un esempio in particolare?

«Mi vengono in mente l’educazione socioaffettiva e l’introduzione del reato di femminicidio: sono due estremi di un discorso che parte sempre dalla fine, a violenza compiuta, e che messo così offre solo risposte securitarie, punitive e soprattutto tardive. Se vogliamo diminuire i casi, alla punizione dobbiamo affiancare la prevenzione, sostenere il lavoro che noi portiamo avanti e purtroppo questa parte viene spesso dimenticata nei programmi».