Il libro
Particolare della copertina del romanzo "L'immensa distrazione", dal dipinto "Il guado" di Alessandro Tofanelli (foto Ansa)
Ettore Manfredini è appena morto quando inizia a raccontarci della sua famiglia. È appena morto, eppure per lui il “passaggio” è parso più un risveglio, che lo mette di fronte alla pellicola dei ricordi del suo passato. Questa è la linfa dell’incipit kafkiano di "L’immensa distrazione" (Einaudi), il nuovo romanzo di Marcello Fois, autore sardo che ha deciso di omaggiare, in quasi 300 pagine, la sua terra adottiva, l’Emilia, addentrandosi nella campagna modenese. Qui si snodano le vicende dei Manfredini, di Ettore, figlio di contadini, aiutante in un mattatoio kosher e poi imprenditore di successo nel business della carne, intreccio fraterno di vita e morte. Fois ritorna a una narrativa generazionale con uno stile prezioso condensato in capitoli brevi e brevissimi (a volte di due righe o poco più), che vanno a comporre un puzzle di storie che sono la Storia stessa, quella dell’Italia del Novecento, soprattutto della sua prima metà, che porta con sé l’ombra fredda della Seconda guerra mondiale e di Auschwitz. Ettore, dallo spirito disincantato, non risparmia verità, su di sé, su quel pilastro della madre, sul padre anaffettivo mangiato dal cancro, sui suoi fratelli – uno destinato a soffrire già dal primo giorno e l’altro rozzo e fascista – fino alla moglie ebrea scampata alla deportazione. E poi l’azienda, le figlie, il figlio mai amato, il nipote prediletto troppo fragile per vivere il mondo e sopportarne i dolori, le fortune e le menzogne accanto ai loro segreti. Fois dipana la matassa della vita in ragione della fame che si ha di essa, aiutandoci così a “distrarci” dalla morte, dal suo costante sussurro nell’orecchio.
Recensione tratta dal n.8 di "Quindici" del 27 novembre