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«Non può essere morale chi è indifferente. L'onestà consiste nell'avere idee e crederci e farne centro e scopo di se stessi», queste le parole di Piero Gobetti, intellettuale antifascista, che risuoneranno questa sera in sala Borsa, a un centennio di distanza. Parole intransigenti, che trasudano la passione della resistenza e spingono, anche oggi, a prendere posizione. Contro quel che si ritiene ingiusto. La forza delle idee di un giovane morto a venticinque anni a seguito di un assalto squadrista.
Il tramite moderno dell’eredità di Gobetti sono le pagine del saggio “Un mondo nuovo tutti i giorni” (Solferino) di Paolo di Paolo, scrittore pluripremiato, nonché finalista al premio Strega con “Mandami tanta vita”, un romanzo dedicato sempre al giovane che non si prostrò al fascismo.
Le ragioni che hanno spinto lo scrittore a ridestare il lavoro sulla figura dell’intellettuale novecentesco non sono solo celebrative, il centenario della morte, ma la necessità di affinare in uno strumento diverso, quello del saggio, le tappe condensate, ricche di iniziativa, di una vita straordinaria. Per citarne alcune: fonda la sua prima rivista “Energie Nove” a soli diciassette anni, nel 1922 “La Rivoluzione Liberale” di stampo antifascista e, nello stesso anno, la "Piero Gobetti editore", con cui lancia più di cento titoli, tra cui “Elogio della libertà”, di Stuart Mill e “Ossi di Seppia” di Montale. «Nel caso del romanzo c'è ovviamente un lavoro di immaginazione, rivisitazione, per quanto aderente alle fonti, c'è un margine di libertà molto ampio. Credo che in questo caso sia, ancor più che un saggio in senso stretto, qualcosa a metà tra un pamphlet, un memoir e una trattazione saggistica intorno all'eventuale attualità di questo personaggio», spiega Paolo di Paolo.
Si tratta di: «Restare politici nel tramonto della politica», un’espressione durissima, contenuta nel libro “Guerra agli apolitici”, poi ripresa da di Paolo, che sembra scritta ieri. Il messaggio che attraversa le due epoche è chiaro: anche quando la politica delude, anche quando si arriva a disconoscere la propria zona di rappresentanza, la disillusione è un alibi. Il cinismo una forma di codardia. «Piuttosto che l’astensione, sarebbe meglio una scheda bianca. È qui la grandezza di Gobetti, di essersi accorto già cento anni fa della forte disaffezione fra cittadini e partecipazione politica, ancor prima di aver denunciato le derive autoritarie», aggiunge di Paolo.
Non impegnarsi nel plasmare il proprio tempo è una delega, pericolosa poiché la rappresentanza democratica si basa su un principio di maggioranza. Una voragine che si apre in quella che gli storici chiameranno “zona grigia della società”. Quel terreno di combattimento che non ha mai lasciato, con ostinazione, come intellettuale sul campo.
«Non vorrei mai che il mio lavoro fosse soltanto quello dell'intellettuale», diceva appunto Gobetti. E lo ha dimostrato, con lo slancio dell’idealismo tradotto in cantiere editoriale e associazionismo politico-culturale. Un monito per quegli italiani di ieri che si sono “lasciati addomesticare dal fascismo” e le “rane bollite” di oggi, insensibili all’agire dei loro governanti, come direbbe la celebre metafora di Noam Chomsky.
Sempre attaccato alla dimensione pratica, Gobetti non ha mai peccato di idealismo. «Lottava con attenzione per il prezzo della carta, il modo in cui l'inchiostro sbava, oppure l’eventualità di un refuso, o ancora andava a litigare con la cartiera perché ti faccia un prezzo migliore e poi cercava gli abbonati, arrivando fino a trecento, un successo enorme in pochissimo tempo», racconta lo scrittore. «Tuttavia una ricetta da applicare ai problemi del nostro tempo non ce l’avrebbe, sono cambiate le categorie e il Novecento è tramontato, ma probabilmente indicherebbe delle strade sempre percorribili. Intanto quella contraria alla passività e all'inerzia, si agisce anche se lì per lì quello che fai non sembra avere un esito. Come dico alla fine del libro: niente è inutile perché l'alternativa non produce alcunché».