Il ricordo

Arnaldo Pomodoro (foto Ansa)
Da Rimini a Bologna, dall’Irlanda alla Grande Mela. Una vita passata ad aprire la materia, a squarciare la “pelle” del metallo, per dare luce alla geometria interna delle cose. Una vita, quella dello scultore Arnaldo Pomodoro, che si è spenta alla sera di domenica 22 giugno, nella sua casa di Milano, il giorno prima di arrivare al traguardo dei novantanove anni. È unanime il cordoglio delle istituzioni, dal presidente dell’Emilia-Romagna Michele De Pascale al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. I funerali si svolgeranno giovedì 26 giugno nella chiesa di San Fedele a Milano. Città che si fa ora custode della sua immensa eredità, grazie alla fondazione che porta il suo nome.
Un arco di tempo che non si è concluso, teatralmente, nella data del suo inizio, come per personaggi del calibro di William Shakespeare o Gigi Proietti, ma che racchiude comunque la preziosità di una figura singolare, autore di una vasta opera altrettanto singolare, che gli fece ottenere, tra gli altri riconoscimenti, il prestigioso premio Imperiale nel 1990, il “Nobel” degli artisti.
Ma non si era dimenticato delle sue origini. Nativo di Morciano di Romagna, in provincia di Rimini – paese natio dei genitori di un altro grande artista italiano del Novecento, Umberto Boccioni – al territorio emiliano-romagnolo, e anche a quello marchigiano, aveva donato nel corso degli anni diversi suoi lavori. Impossibile non ricordare i suoi “Totem”, tre colonne diverse che furono un dono per Bologna, volute dall’allora sindaco Renato Zangheri, prima poste in piazza Verdi, dove vissero la stagione delle rivolte studentesche, e oggi svettanti nei giardini del Cavaticcio. E poi ci sono il “Colpo d’ala” dedicato a Boccioni, nella sua Morciano, la “Grande prua”, in onore di Federico Fellini, all’interno del Cimitero Monumentale di Rimini, per non parlare della “Sfera grande” al piazzale della Libertà di Pesaro, sul lungomare. Ormai divenuta un simbolo della città, l’opera è chiamata simpaticamente la “palla di Pomodoro”, che pare galleggiare sullo specchio d’acqua della fontana in cui è posta, al suo centro.
Le sue sculture però non si sono fermate all’Italia. Hanno varcato i confini nazionali e si sono sparse in tutto il mondo, per esempio “Sfera con sfera” davanti alla sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) a New York, la sua “gemella” al Trinity College di Dublino e un altro “Colpo d’ala” volato fino a Los Angeles.
Parliamo di opere che si mostrano con potenza nella loro “veste”, in metalli come ferro, oro, argento e soprattutto bronzo (elemento principe della sua arte), e nelle loro forme variegate, obelischi, vele, coni e soprattutto sfere. Ecco, le sfere, probabilmente le sue creazioni più famose. Pianeti impossibili che con una possibile congiunzione si inglobano, svelando i loro cuori, le loro “interiora” di materia a forma di ingranaggi. Ingranaggi e ancora ingranaggi, geometrie che si condensano per creare un’armonia naturale, che spesso e volentieri non vediamo. Le forme della geometria ci raccontano mondi che sono totalmente interni, non esplodono, bensì implodono, si raccolgono in se stessi, quasi a indicare, indirettamente, un che di introspettivo al fruitore. Un groviglio che si rivela attraverso squarci nel bronzo, liscio, una buccia levigata, perfetta, che mette a nudo le sue brutture interiori, per poi far capire che quell’interno scuro, un complesso e atipico orologio, non è altro che bellezza da non interrogare, ma da ammirare nella sua profondità meccanica.
Pomodoro aveva dato voce a un modo di fare scultura diverso dai precedenti nella storia dell’arte. Lo si può considerare a tutti gli effetti il più grande scultore italiano contemporaneo, un apripista per molti. Si era immerso nella modernità e le aveva dato un volto austero, ma carico di pathos, un volto che guarderà sempre al futuro e, pertanto, al destino dell’uomo.