inchiesta

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C'è una seconda indagine in corso sulla banda della Uno bianca. Al fascicolo già aperto nel 2022, si è appreso in questi giorni, se ne è aggiunto infatti uno che invece è sul tavolo della procura della Repubblica dal 2024. A distanza di trent’anni, con parte dei responsabili individuati e processati, l'ufficio del Pubblico ministero continua a lavorare per portare alla luce i tanti elementi che ancora non tornano. «È una storia costellata più di dubbi che di certezze, non sappiamo ancora tante cose», sostiene il giornalista Paolo Soglia, che ha seguito il caso nel corso degli anni. «Col tempo la vicenda si è un po' dimenticata, ma sono tante le persone coinvolte, e tanti i dubbi rimasti».
La banda della Uno bianca nasce nel 1987 quasi “per scherzo”, come dichiarato in sede d’interrogatorio dai fratelli Roberto, Fabio e Alberto (detto Loca) Savi. Roberto e Alberto sono poliziotti, Fabio è camionista. Anche gli altri tre membri del gruppo, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli, sono poliziotti in servizio fra Bologna e la Romagna all’epoca dei fatti. Per sette anni, tra il 1987 e il 1994, la banda commette 103 azioni criminali, in gran parte rapine a mano armata, uccide 24 persone e ne ferisce 114. I moventi sono tutt’ora nebulosi, e lo stesso Soglia sostiene che la motivazione economica sia risibile: «I soldi veri i Savi li fanno verso la fine, a partire dal 1991, quando iniziano a rapinare le banche». Prima di allora, i target erano i caselli autostradali, i supermercati, gli immigrati e i campi nomadi. Solo dagli anni ’90 la banda intraprende azioni terroristiche vere e proprie. Nel 1994 Fabio Savi viene arrestato e iniziano le indagini che porteranno all’individuazione dei responsabili. Ma non sappiamo, dice ancora Soglia, se qualcuno sia sfuggito.
La prima indagine, aperta nel 2022, si concentra su uno dei tanti episodi non del tutto chiariti dalla storia della banda, l’omicidio del 20 aprile 1988 a Castel Maggiore dei carabinieri Cataldo Stasi e Umberto Erriu. Oltre alle due persone giudicate colpevoli, Roberto e Fabio Savi, si ipotizza la presenza di una terza persone. Il fratello Alberto, indagato a suo tempo, è stato scagionato, mentre è ancora sotto la lente d'ingradimento dei pm e dei cronisti il ruolo del carabiniere Domenico Macauda, già condannato in passato per depistaggio delle indagini. Fu lui a mettere il bossolo di un proiettile nell’auto abbandonata dagli assassini nel delitto di Castel Maggiore e ad aver fatto ritrovare altri bossoli uguali nell’abitazione di alcuni pregiudicati. Dopo essersi dichiarato colpevole venne condannato a 8 anni e 4 mesi, ma non spiegò mai perché avesse compiuto tale atto. Un'ipotesi è che lo avesse fatto per motivi di carriera, ma c'è chi sospetta che il fine fosse diverso.
Il nuovo fascicolo, aperto un anno fa e sul quale c’è un fitto riserbo, sembrerebbe riguardare altri due episodi chiave nel curriculum della banda, avvenuti entrambi nel 1991 a Bologna: la strage del Pilastro, in cui furono uccisi tre carabinieri, e l’attacco all’armeria di via Volturno, in cui è morta la titolare dell’armeria e un carabiniere in pensione. L’indagine si baserà sull’analisi, con strumenti fino a trent’anni fa impensabili, fatte dal Ris di Parma su tracce di Dna, bossoli e perizie grafologiche, prove che nel tempo sono stati tralasciate o addirittura inquinate. «È una storia di sangue lunga sette anni, sono tantissimi gli episodi così come le prove disponibili», secondo Soglia, «L’utilizzo delle nuove tecnologie potrebbe essere la direttrice di questa nuova indagine. La cosa più importante è che stiano indagando veramente e ne esca qualcosa. Che non abbiano aperto questa nuova strada solo per pressione delle associazioni dei familiari. Mancano ancora troppi tasselli, dall’inizio alla fine di questa storia».