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Una sfilata di Jean Paul Gaultier (foto Ansa)

 

A fine estate Bologna accenderà le luci sulla sua passerella, con il Fashion Festival in programma dall’11 al 13 settembre. Un evento che celebra l’eccellenza e l’unicità della moda italiana, ma anche l’innovazione e la sostenibilità. C'è tempo fino al 30 giugno per presentare nuovi progetti e nuove idee. Il centro storico si trasformerà in una grande runway, con la celebrazione della creatività, della cultura e dello stile. L'evento è una buona occasione per spendere qualche parola sulle infinite e spesso confuse possibilità di scelta che caratterizzano l’epoca contemporanea e che coinvolgono sempre più in maniera diretta l’atto umano del vestirsi. E non è vero che ciò che va di moda oggi sarà già vecchio e superato domani, se solo ci si rende conto che l’obsolescenza programmata che affligge i dispositivi elettronici sulla moda non attecchisce, nonostante i diversi e disperati tentativi di alcuni in questa direzione. Del resto la moda è una cosa seria. Spesso accusata di frivolezza, di semplice volontà di apparire, nell’ostentazione di chi non tanto usa la moda per mostrare il proprio status sociale, quanto di chi, seduto sullo scranno del giudizio di ciò che serio e di ciò che è faceto, liquida con poche parole snobistiche e supposte intellettuali chi di stile se ne occupa per lavoro, per passione o semplicemente per omologazione. Indubbiamente, per quanto un osservatore sia attento a non cadere vittima di facili tranelli, la moda e il costume un certo grado di standardizzazione lo subiscono e lo impongono, realizzando una confusa struttura sociale e commerciale in cui emerge il potere dell’identificazione o, detto con semplicità, il potere del "ce l’hanno tutti, lo voglio anche io". In tale contesto è quindi fondamentale porre in risalto la differenza strutturale tra moda e costume, considerando che solo quest’ultimo può essere definito come un "tipo" relativamente stabile di comportamento sociale, la cui mutevolezza, sempre che ad essa ci si arrivi, richiede il trascorrere di un lungo periodo di tempo, misurabile in decenni se non in secoli, e profondamente interconnessa all’evoluzione stessa della società, dei condizionamenti cui essa è sottoposta e del diverso atteggiarsi dei rapporti di forza tra gli abitanti di un dato luogo in un dato tempo.

Diversamente, la moda, per quanto non sia sottoposta al processo fisiologico dell’invecchiamento, cambia, continuamente e ininterrottamente volge la propria influenza nelle direzioni più diverse, che sia haute couture, prêt-à-porter o fast fashion, fissando sì dei punti fermi e dei punti di rottura, ma ciclicamente tornando, per poi mutare strada di nuovo, magari prendendo una rotta che nessuno si aspetta. Nel titanico e tirannico universo della haute couture parigina, è il viaggio che fanno da trentun’anni Viktor&Rolf, due talentuosi designer olandesi che, seppur non iscritti ufficialmente alla Fédération de la Haute Couture et de la Mode, ogni stagione l’alta moda la immaginano, la disegnano, la cuciono e la presentano in sfilate spettacolo dove l’inindossabilitá è la caratteristica fondamentale. In occasione della Fashion Week estiva del 2015, al Palais de Tokyo, i due stilisti hanno messo in scena una performance visionaria in omaggio all’arte figurativa, facendo sfilare le modelle con abiti-dipinti realizzati rigorosamente a mano che, poi, privati sulla scena dalla fisicità del corpo, con Viktor&Rolf in jeans e t-shirt nel ruolo di vestiaristi, sono stati letteralmente dispiegati e appesi alla parete bianca sullo sfondo, dando vita a un grande quadro con tanto di cornice rigida.

È chiaro che gli abiti pensati e confezionati per questa sfilata rappresentano la dimensione profondamente onirica dell’artisticità dei due stilisti, così come è altrettanto chiaro che tali abiti non siano ovviamente portabili, come quasi tutti quelli del duo. Poco importa, non è questo il punto. Chiamatelo sfoggio di idee, di abilità tecnica e sartoriale, di presunzione utopistica, consideratelo pure uno sperpero di risorse umane e materiali, un divertissement fine a se stesso. Chiamatelo come volete, ma siate aperti a una serie di considerazioni che iniziano al momento dello studio intenso che uno stilista deve assimilare, passando per una gavetta dove tutti mangiano tutti e tu non conti nulla, approdando poi alla tanto sudata e sognata prima sfilata, dove esprimere se stessi e la propria visione del mondo è un obiettivo forse più importante e impellente rispetto alle logiche del marketing, della diffusione capillare del prodotto e della ricerca osannata della vestibilità. Il fatto poi che Viktor&Rolf abbiano collaborato con il colosso del fast fashion H&M per la realizzazione di una capsule collection è un altro discorso, complice probabilmente non tanto la legge quanto la formula del contrappasso, così da bilanciare, attraverso una compensazione iper commerciale, la loro imperdonabile tendenza verso una moda visionaria, da ammirare una volta soltanto davanti alla passerella, un ricordo fuggevole di un abito costruito su un altro abito, asimmetrico, applicato verso l’alto dal busto, quasi a toccare il soffitto, come nella collezione primavera-estate del 2023. Come se poi fosse una colpa irrimediabile quella di dare sfogo massimo, anche estremo, alla propria creatività, mettendo in secondo piano gli interessi del mainstream, della monetizzazione e del costume di un preciso momento storico accettato e ribadito costantemente. Perché è vero, la moda è il minimalismo di Giorgio Armani e di Jil Sander, l’urlo disperato di Martin Margiela, l’erotismo esibito ed esasperato di Gianni Versace e di Dolce&Gabbana, il classicismo ossimorico di Coco Chanel e l’eleganza ostentata di Christian Dior. Ma la moda è anche il coraggio di alienazione di Vikto&Rolf, o di Rick Owens, la spinta ad assecondare i propri canoni tessutali e sociali di bellezza, sperimentando tutto ciò che un’esistenza libera da barriere fisiche e concettuali può offrire, aprendo la strada non solo al futuro ma anche al ricordo del passato, in una sorta di definitiva accettazione di quello che siamo stati e di quello che saremo, in assoluta contemplazione delle infinite vie di fuga dalla realtà che la moda può regalarci.