ricordo

Luciano Pavarotti

Luciano Pavarotti (foto di Ferdinando Scianna, concessa dalla Fondazione Pavarotti)

 

L’orchestra della Fondazione Luciano Pavarotti debutterà a Bologna, in piazza Maggiore, l’8 giugno. A settembre sarà all’Arena di Verona per un concerto evento che a chi gli anni novanta li ha vissuti non potrà non ricordare le atmosfere nostalgiche di quei Pavarotti&Friends che illuminavano il centro di Modena. 

Un progetto desiderato, studiato e seguito da Nicoletta Mantovani, moglie del tenore scomparso nel 2006, che nel 2025 avrebbe compiuto novant’anni. L’abbiamo incontrata nel suo ufficio, tra centinaia di foto, cimeli, premi, ricordi. Quei ricordi indelebili di una vita accanto al cantante d’opera più famoso del mondo, tra viaggi in America, Asia, Australia. Le amicizie condivise, la passione per i cavalli, la figlia Alice.

«Il primo obiettivo della Fondazione, nata nel 2008 – racconta - è quello di preservare l'eredità artistica e umana di Luciano. Il secondo è quello di portare avanti i suoi sogni, il suo desiderio di fare arrivare  l’opera lirica a tutti, aiutando le nuove generazioni di cantanti a realizzare il proprio futuro artistico».

Il cuore pulsante del progetto è la casa di Modena, oggi anche un museo, che «Luciano aveva costruito in ogni minimo dettaglio e in cui abbiamo vissuto fino alla fine della sua vita. È la casa in cui è scomparso e io credo che un po’ della sua energia ci sia ancora. Abbiamo deciso di aprire le porte a tutti coloro che hanno amato Luciano».

Il debutto dell’orchestra è un’occasione per ricordare gli anni vissuti accanto al marito, le esperienze, gli incontri, i sentimenti e le scoperte che la condivisione e la vicinanza umana e affettiva hanno regalato a entrambi. La storia di come la musica lirica, per la prima volta, sia "scesa" al livello della musica popolare, trasformandosi in  un evento televisivo seguito in tutto il mondo.

«Il Pavarotti&Friends è nato in momento particolare. Era il 1992, io non ero ancora al suo fianco. Mi raccontò che una sera Zucchero arrivò da lui con un provino. Gli chiese di fare un duetto. Le parti di Luciano, nella registrazione, erano cantate da un giovane toscano talmente bravo che Luciano gli disse: “Aldo (Zucchero, n.d.r.), guarda che non hai bisogno di me, questo ragazzo è bravissimo”. Quel brano era “Miserere” e quel ragazzo era Andrea Bocelli. Zucchero però insistette molto e alla fine Luciano si decise. Incise il pezzo e organizzarono il primo grande concerto in piazza a Modena. C’erano Brian May dei Queen e Sting. Non furono molto fortunati quella sera, il brutto tempo e alcuni imprevisti tecnici li costrinsero a cantare in playback». Due anni dopo, Pavarotti decise di replicare il concerto evento, unendolo a un altro suo grande amore, quello per i cavalli. L’organizzazione richiedeva braccia e menti che potessero essere d'aiuto per realizzare un evento degno della sua passione e della sua dedizione.  E si sa, d'estate i giovani studenti cercano disperatamente qualche lavoretto per arrotondare, per togliersi qualche sfizio, magari per farsi qualche giorno al mare. Tra quei ragazzi c'era anche una giovanissima bolognese, Nicoletta Mantovani. «Erano alla ricerca di una tuttofare. Fotocopie, caffè, cose così. Mi dissero di presentarmi per un colloquio. Aprii la porta sbagliata e vidi quello che per me, allora, era solo Pavarotti, seduto su una sedia. Mi invitò a entrare e iniziammo a parlare. Si immagini, io che di opera non sapevo nulla, giocatrice di baseball e fan di Vasco Rossi. Due mondi lontanissimi che il destino ha voluto unire». Un incontro che cambierà la vita di entrambi. La vita di Nicoletta, certo, ma anche quella del grande tenore che di lì a poco si ritrovò ad accettare i consigli di una giovane donna determinata, la visione di un mondo più moderno, foriera della possibilità di unire in grande la "seriosità" della musica lirica al pop e al rock. «Era il 1994, iniziai a parlare con Luciano con gli occhi di una ragazza di ventiquattro anni e lui mi disse: "Senti, c'è una cosa che io non sopporto. Chi parla e critica e però non fa. Tu hai due scelte: o taci o fai". Io non ho avuto dubbi. Ho fatto. O, meglio, all'inizio Luciano mi ha dato molta fiducia. Il concerto era programmato per settembre, ma a luglio non avevo ancora nessuno nell'elenco degli ospiti. Ero disperata, sarebbe stato un fallimento personale. E qui intervenne Luciano, che non voleva finisse così. Alla fine le adesioni arrivarono e io proposi di divdere la platea in due parti. Una sezione dedicata a chi si poteva permettere un  biglietto costoso e un'altra che ospitasse i giovani, con un ingresso simbolico a diecimila lire dell'epoca. Fu una rivoluzione e Luciano si esaltò tantissimo. Non era abituato a vedere tutta quella gente in piedi sotto il palco. Andò molto bene».

Così tanto bene che nel corso degli anni, su quel palco ci sono saliti, tra i tantissimi, Bono, Elton John, Lionel Richie, Michael Bolton. E poi Renato Zero, Jovanotti, Laura Pausini, Giorgia, solo per citarne alcuni.  Stelle della musica cosiddetta leggera che contaminavano, con la prevedibile e scontata riprovazione dei puristi della musica classica, quella contaminazione che al fin fine fece davvero avvicinare le giovani generazioni alla musica cosiddetta colta. «Lui mi diceva sempre: "Vedi Nicoletta, il problema dell'opera è il pregiudizio. Si dice che l'opera sia noiosa, che sia per pochi. Non è vero. Va solo ascoltata con l'anima, perché è quella che viene toccata, nient'altro».

E pensare che Pavarotti, per cantare una canzone popolare si preparava un anno intero, dovendo fare i conti con una metrica, un tempo e un'interpretazione così diversa rispetto alle "arie", che sembra quasi paradossale. «La musica leggera la amava molto, per lui non c'erano confini. Il Re del pop, Michael Jackson, doveva venire nel 1999. Avevamo già pronta la demo del duetto, ce l'abbiamo ancora. Il brano si chiamava "La mia canzone al vento". Per alcuni problemi personali Michael non riuscì ad esserci, ma rimanemmo in contatto. Nel 2001, il Presidente degli Stati Uniti George Bush premiò Luciano con il Kennedy Award. A sorpresa fecero l'annuncio Quincy Jones e Stevie Wonder. In platea Luciano svenì per l'emozione. Era un periodo difficile, l'11 settembre era passato da poco e tutti pensarono a un attacco chimico. Il giorno dopo Michael Jakson lo chiamò per sapere se si fosse ripreso».

E qui non si vorrebbe eccedere con le celebrazioni e con gli omaggi, ma il Pavarotti che emerge dai racconti e dagli occhi della Mantovani non è tanto l'artista che dai palcoscenici di tutto il mondo emozionava le platee, le gallerie e i palchetti laterali. No, emerge la dimensione più umana, anche nelle vesti della concretizzazione di quella beneficenza che oggi, per ipocrisia o per pudore, si fa fatica a dichiarare. Almeno quando è fatta con sincerità. «L'accusa che ci è sempre stata rivolta - racconta la Mantovani - è che noi la beneficenza l'abbiamo fatta per un ritorno commerciale. Per metterci in mostra. Per dire quanto siamo bravi, belli e buoni. Proprio in Afghanistan abbiamo seguito nel corso degli anni tantissimi bambini. Quando gli Stati Uniti se ne andarono dal Paese, lo lasciarono in condizioni disperate. Abbiamo realizzato centri di studio anche in Guatemala, in Cambogia e in India, per accogliere i rifugiati tibetani. Dopo tanti anni, questi bambini sono diventati uomini, molti hanno una carriera solida e l'emozione più grande è scoprire che ancora tengono il pass dell'edizione del Pavarotti&Friends in cui erano stati ospiti».

Quello che emerge è un Pavarotti profondamente interessato alle storie umane, ai desideri di chi è nato in un luogo sfortunato. E magari sogna ancora. «Luciano cercava continuamente il bello. Ovunque. Era curioso di tutto e si informava su qualsiasi cosa. Quando firmava gli autografi dopo i concerti, le file erano interminabili perché lui si intratteneva con il contadino, con il fabbro, con chiunque gli si presentasse davanti. "Come faccio a sapere se una pera è davvero buona? Come si piega al meglio quel pezzo di ferro?". Luciano era così».

Amato dal pubblico, alle volte criticato dai puristi della lirica. Rispettato dai suoi colleghi artisti. Uno tra tutti Bono, degli U2. «Bono ci è stato accanto in un periodo molto difficile della nostra vita. Era il 2003, noi avevamo da poco perso nostro figlio Riccardo. Un grande dolore. Invitammo Bono all'ultima edizione del Pavarotti&Friends. Il mio desiderio era che cantassero insieme l'Ave Maria. Bono era stanco per i tanti concerti di quell'anno e non riuscì a cantarla. Il mattino dopo mi chiamo e mi disse che aveva riscritto la sua parte del brano. Un'intensa riflessione contro la guerra e la violenza.  Mi commossi».

Una commozione che ritorna nel 2006, alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Torino. La scenografia è imponente, il grande palco dello stadio si trasforma in un teatro dell'opera. L'orchestra suona le prime note del "Nessun Dorma". Sarà l'ultima esibizione di Luciano Pavarotti. «Pensi ai casi della vita. Di recente abbiamo trovato uno spartito del 1956. Luciano debuttò in scena nel 1961, ma alcuni anni prima partecipò a un concorso di canto. Si presentò proprio con il Nessun Dorma, che negli anni diventò suo malgrado il cavallo di battaglia. Iniziò e chiuse  la carriera con quest'aria. Noi ancora non sapevamo della malattia, che scoprimmo alcuni mesi dopo. A Torino fu una grande emozione. Invitammo anche Yoko Ono a leggere il testo di "Imagine" e l'esibizione di Luciano chiuse la cerimonia».

Chiuso il sipario Pavarotti trascorse gli ultimi mesi della sua vita accanto alla moglie e alla figlia, nella casa di Modena. «Non esisteva un Luciano pubblico e un Luciano privato. Era sempre lui, sempre se stesso. Un motivatore per me e per tutti coloro che gli stavano attorno. Nei primi tempi, fu inevitabile che io, giovane com'ero, mi montassi un po' la testa. "Vola basso, anatra", era il suo rimprovero. Sempre con tenerezza, e con la sua innegabile tendenza a esaltare le caratteristiche positive delle persone che lo circondavano. Non sminuiva le persone, anzi le esaltava. Ma ci teneva che io mantenessi i piedi per terra».

Un maestro sul palco e anche tra le mure di casa, impegnato a trasmettere quel messaggio che oggi sembra un po' passato di moda: "Chiunque può fare qualsiasi cosa, se lo vuole". Un messaggio che Nicoletta Mantovani, nel corso degli anni ha imparato ad assimilare e a tradurre nella pratica dei fatti. Concretizzando e portando avanti quel desiderio di condivisione e di innovazione che il marito perseguì nel corso della sua vita. La tendenza a vedere il bello delle cose, gli aspetti positivi di un emozione. Anche di un difetto.

«Mi manca la sua gioia di vivere, il suo entusiasmo. Aveva la capacità di riuscire sempre a sorridere anche nei momenti più complessi. Lui era della Bilancia, io sono uno scorpione, quindi si immagini le scintille.  Non era una persona che si esaltava o si buttava giù in maniera incredibile. Riusciva sempre a dare il giusto peso alle cose.

Se entrasse adesso da questa porta lo abbraccerei e gli chiederei di farmi uno dei suoi sorrisi. Lo sento già che mi dice: "Ma basta Nicoletta, hai parlato troppo"».

 

L'articolo è tratto dal Quindici del 29 maggio 2025