intervista

Oscar Farinetti, foto di Christian Caporaso

 

Nella sua vita ha fatto di tutto. La sua autobiografia, “Never quiet”, ha come sottotitolo “autorizzata malvolentieri”. Perché questa scelta?

«Ho scritto quel libro anche se io detesto parlare di me, per questo ho specificato che la mia storia era, appunto, raccontata malvolentieri. Penso che tutti parlino troppo di sé, soprattutto in Italia, e che mettere sempre al centro noi stessi sia un indice di vecchiaia. Il libro si intitola “Never quiet” perché chi non è inquieto vive una vita noiosa. L’inquietudine è alla base della felicità ed è fondamentale per divertirsi e sperimentare, per vivere una vita piena».

 

Ha trasformato la passione per il cibo e l’Italia in un’avventura imprenditoriale. Che cosa racconta del nostro Paese il settore agroalimentare?

«Io non sono orgoglioso di essere italiano, io sono riconoscente di essere italiano, che è ben diverso. Abbiamo la più grande biodiversità del pianeta, il maggior numero di patrimoni Unesco e il 70% dell’arte antica e potrei continuare, ma, secondo Win/Gallup, siamo ultimi per fiducia verso il futuro, è un grande paradosso. Abbiamo la cucina più desiderata al mondo e questo perché si basa su ricette semplici, che nascono nelle case delle nostre nonne e quindi sono facilmente replicabili».

 

Eataly, la sua creatura, che ruolo ha avuto in questo?

«È stata decisiva nell’esportare e far conoscere la nostra tradizione culinaria, ha fatto venire voglia a un sacco di italiani di andare all’estero a raccontare le nostre eccellenze».

 

Qual è il suo piatto preferito? E la ricetta bolognese che apprezza di più?

«A Bologna avete il piatto che mangerei se dovesse essere l’ultimo della mia vita: i tortellini in brodo, bolognesi, in brodo di cappone e ripieni di mortadella e parmigiano. La mia cucina preferita in assoluto è quella piemontese, nella mia classifica quella emiliano-romagnola non è ai primi posti ma, tuttavia, ha dei singoli piatti incredibili e i tortellini sono uno di questi».

 

Cosa pensa dell’italian sounding? Come possiamo tutelare i prodotti italiani e difenderci da questa pratica?

«Speriamo che non smettano di imitarci. Quando vado ai convegni sul tema comincio sempre con la frase di Eschilo: “Non è felice quello che nessuno invidia o imita”. Dobbiamo andare all’estero a raccontare la cucina italiana invece che controllare cosa fanno gli altri, senza contare che fuori dall’Italia ho trovato prodotti strepitosi che si rifanno alla nostra tradizione».

 

Per esempio?

«Mi piace citare un’azienda canadese fondata da immigrati calabresi che produce la nduja seguendo in maniera estremamente scrupolosa i procedimenti tradizionali. Il risultato è un prodotto eccellente che regge il confronto con quelli nostrani».

 

Ci sono multinazionali straniere che commercializzano con successo prodotti che si rifanno alla tradizione italiana. Come commenta?

«Noi italiani siamo molto bravi a fare piccole imprese ma meno a organizzare delle multinazionali. Tanti pensano che sia un difetto, secondo me è una virtù e dobbiamo mantenere la nostra vocazione tentando di proporci all’estero in modo collettivo. Adesso c’è molto più coraggio che qualche anno fa. Quando ho aperto Eataly in Giappone e a New York, la Francia esportava il doppio di noi, 41 miliardi contro 18, ora la tendenza è cambiata, lo scorso anno eravamo rispettivamente a 70 e 62 miliardi, per il sorpasso è solo questione di tempo».

 

Cosa pensa del cosiddetto turismo dei taglieri nei locali del centro di Bologna?

«Forse la stupirò ma penso che quello di Bologna sia un modello virtuoso. Io sono per il turismo di massa e trovo ipocrita pensare che solo i ricchi possano accedere a un certo tipo di offerta turistica e di ristorazione. In Italia abbiamo 55 patrimoni Unesco, dobbiamo portare i turisti a visitarli tutti, anche quelli che ora sono esclusi dagli itinerari; in questo senso l’utilizzo dell’agroalimentare sul modello dei taglieri di Bologna può aiutare».

 

E della carne sintetica?

«Mi piace da morire, sto cercando il modo per investirci. Anche Socrate diceva che dobbiamo diventare vegetariani per motivi politici e di guerra. Dobbiamo mangiare meno carne noi, meno e buona, e fare in modo che ce ne sia di più per altri nel mondo. Io sono contro gli allevamenti intensivi, le nostre vocazioni sono altre».

 

L'avventura di Fico, la fabbrica italiana contadina, si è chiusa da poco dopo una storia imprenditoriale travagliata. Quali sono stati gli errori commessi e di cosa invece è fiero?

«Sono fiero dell’idea, il format era pazzesco, di una bellezza inaudita; l’errore è stato farlo a Bologna. Mi sono fatto conquistare dalle proposte che mi arrivavano, ho creduto nel progetto e in chi me l'aveva venduto e ci sono cascato. Prendo in prestito le parole di Guido Piovene, giornalista che nel suo “Viaggio in Italia”, celebre guida letteraria della Penisola di fine anni ’50, definì i bolognesi come “stupidamente polemici”».

 

Quindi dove bisognava farlo?

«A Milano. Sarebbe stato perfetto per il dopo Expo, poteva funzionare solo lì. C’era bisogno di una città dalla forte impronta internazionale, collegata con il resto del mondo e con un certo tipo di turismo. Quando Beppe Sala (l’attuale sindaco di Milano, n.d.r.) ha saputo che avremmo aperto a Bologna non mi ha parlato per un anno».

 

Come sta andando invece il nuovo Grand Tour Italia e come sono le aspettative per i ricavi del primo anno di apertura?

«Le aspettative erano altissime e sicuramente i ricavi saranno meno di quanto speravamo. Posso dire di non aver mai azzeccato un budget nella mia vita, ma l’imprenditore che preferisco f issa sempre obiettivi ambiziosi anche se sa che probabilmente non li raggiungerà mai».

 

Nel caso specifico?

«Non riusciremo a rispettare quanto messo a budget finché non aprirà lo stadio che, insieme al tram, è uno dei motivi per cui ho scelto quella location. Vedremo cosa succederà nei prossimi anni, però nel complesso sono contento di come sta andando, durante il weekend il parco è sempre pieno».

 

Proprio i terreni intorno all’ex Caab e il possibile sviluppo immobiliare dell’area sono stati oggetto di un recente servizio di Report. Come commenta?

«Non conosco niente di ciò che riguarda lo sviluppo immobiliare, non c’entro nulla con quei progetti. Però devo dire che nel mio caso Report ha condotto l’inchiesta in modo vigliacco perché è partito da una tesi precisa facendo di tutto per confermarla a prescindere da quella che era la realtà».

 

In che senso?

«Mi hanno intervistato per un’ora e hanno tenuto solo i due minuti che potevano essere utili a costruire la narrazione che volevano raccontare. Inoltre, durante la trasmissione, hanno sostenuto che io e Carlo Petrini, fondatore di Slow-Food, avremmo litigato e questa è una cosa assolutamente falsa. Forse volevano dimostrare di non attaccare solo i personaggi di destra ma anche quelli di sinistra».

 

Parliamo ora dell’avventura di Unieuro. Ci racconta gli inizi?

«Quando nel 1978 mio padre ha trasformato Unieuro da grande negozio a ipermercato, per giustificare il nome doveva aggiungere un’offerta di prodotti non-food. Creò un piccolo reparto di elettrodomestici, cinque metri per quattro sui 4.000 metri quadri totali, e me lo affidò. Così cominciai ad appassionarmi al mondo della tecnologia. La mattina preparavo il negozio, in giornata stavo fra gli scaffali a vendere e la sera andavo a fare le consegne».

 

Come è diventata l’azienda che tutti conosciamo?

«Capii subito che il computer sarebbe stato il futuro e cominciai ad allargare il reparto. Dopo un anno si estendeva su 200 metri quadri e dopo tre anni su 1.000; alla fine le vendite di elettrodomestici superarono quelle degli alimentari. Nel 1989 proposi a mio padre di vendere tutte le attività di famiglia legate al cibo per dedicarci unicamente all’elettronica. Di nascosto avevo già venduto tutto, quando ne ho parlato per la prima volta in famiglia avevo già l’assegno dell’acconto in tasca, per fortuna mio padre si fidava di me e mi lasciò fare».

 

Il suo terzo Eataly dopo Torino e Tokyo ha aperto a New York. Che legame ha con gli Stati Uniti e qual è il suo giudizio su Trump?

«Prendo in prestito la classificazione della stupidità umana che lo storico Carlo Maria Cipolla fa nel suo “Allegro ma non troppo”; Trump appartiene al gruppo degli stupidi, ovvero di quelli che per fare del male agli altri si fanno del male da soli».

 

Sta parlando dei dazi?

«Sì, saranno dannosi soprattutto per gli stessi Stati Uniti che finora sono stati al centro del commercio globale proprio grazie all’assenza di tasse sulle importazioni. In più Trump si sta comportando per quello che è: un immobiliarista. Usa le strategie di quel mondo. Una di queste è la cosiddetta “tecnica del pazzo”, che consiste nel fare sempre offerte irricevibili quando si è in una trattativa. Lui l’ha introdotta in politica utilizzandola in maniera sconsiderata».

 

Come giudica l'operato del governo Meloni? Cosa pensa delle politiche del ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare Lollobrigida?

«Vorrei non giudicare perché viviamo in un mondo dove tutti giudicano spesso a sproposito. Sotto il profilo internazionale ero terrorizzato dal fatto che una post fascista fosse a capo del nostro governo e devo dire che, per fortuna, non ha fatto male. Penso poi che l’agricoltura italiana non sia così difficile da governare. È un settore sano e Lollobrigida tutto sommato si sta muovendo bene pur senza fare nulla di straordinario».

 

Ma sull’agricoltura si potrebbe fare di più?

«Se dipendesse da me cercherei un cambiamento più radicale: punterei a dichiarare biologica tutta la produzione agroalimentare italiana. Lo Stato dovrebbe intervenire creando un ente pubblico per la certificazione delle colture biologiche, siamo l’unico Paese al mondo che può farlo. Il giorno dopo l’annuncio di un’Italia interamente “bio” raddoppieremmo le esportazioni».

 

Suo padre è stato un partigiano della brigata Matteotti. Che effetto le fanno le polemiche sull'antifascismo?

«Essere antifascisti è sublime, un gesto d’amore nei confronti di chi vive intorno a noi, vuol dire essere a favore delle libertà individuali, della non violenza, essere contro i sovranismi e i nazionalismi ed essere aperti alle differenze. Io soffro fisicamente quando vedo degli atteggiamenti di tipo fascista, ma anche quando mi trovo di fronte a un antifascismo violento».

 

In passato ha partecipato alla Leopolda e non ha mai nascosto la sua amicizia con Matteo Renzi. Ha mai pensato di scendere in politica?

«Non solo non ci ho mai pensato ma ho rifiutato un ministero; quando Renzi è diventato presidente del Consiglio voleva affidarmi l’agricoltura. Non l’ho fatto perché non mi ritenevo all’altezza. Fare politica è una cosa seria e non si improvvisa, c’erano delle persone migliori di me e le ho suggerite a Renzi, una di loro era Maurizio Martina, che oggi è vice direttore generale della Fao».

 

E oggi a Renzi cosa suggerirebbe?

«Gli voglio ancora molto bene. Ma penso che abbia fatto male a uscire dal Pd, posso però dire che è un uomo profondamente onesto, non mi ha mai chiesto soldi e tantomeno io l’ho mai finanziato».

 

E della segretaria del Pd Elly Schlein cosa pensa?

«Mi piace molto. Valida a livello di contenuti, anche se potrebbe essere una comunicatrice più efficace e questo in Italia conta, dato che abbiamo il difetto di amare i politici carismatici».

 

A proposito di comunicazione, cosa pensa dei giornali italiani?

«Il giornalismo italiano è il più cinico fra quelli del nord del mondo. Ormai è completamente sdoganata la tendenza a utilizzare i media come mezzo per perseguire scopi politici, magari quelli del proprio partito, o semplicemente il proprio interesse personale».

 

Sempre parlando di scrittura, il suo ultimo libro è fatto di 22 storie ispirate dalle fotografie di Bruno Murialdo. Da dove è nata l’ispirazione?

«L’obiettivo era quello di raccontare la mia morale attraverso la narrativa. Sono partito dai soggetti nelle fotografie per creare delle storie che parlassero della concezione del bene e del male. Si parte da un personaggio e poi ci pensa lui, io devo seguirlo e raccontare quello che succede. Ho scelto come titolo “Hai mangiato?” perché, come diceva Elsa Morante, è un modo sublime per dire ti voglio bene. Pensate che in coreano ti amo si dice per l’appunto "hai mangiato?", non penso sia un caso. Buffo vero?».

 

E per il futuro sta lavorando a qualche nuovo libro?

«Scrivere mi piace da pazzi. Ora sto scrivendo un libro con l’antropologo Piercarlo Grimaldi, uscirà fra tre anni e si intitolerà “Omero non deve morire”. Sarà un dialogo sull’essenza della parola, mentre il 9 settembre uscirà il mio primo grande romanzo pubblicato da Bompiani che ha richiesto cinque anni di lavoro, si intitolerà “La regola del silenzio”».

 

Infine una curiosità, perché si chiama Oscar?

«In realtà, ho scoperto solo a diciotto anni che il mio primo nome è Natale. Anzi, Natale Maria. Mio padre me lo diede in onore di mio nonno, come da tradizione familiare. Mi hanno sempre chiamato soltanto Oscar, il mio secondo nome, in memoria di un compagno partigiano che morì in battaglia».

 

Il servizio è tratto da Quindici, n. 4 del 29 maggio 2025