Intervista

Maurizio Marchesini, vicepresidente nazionale di Confindustria (foto Ansa)
L’8 e il 9 giugno si vota per cinque quesiti referendari, quattro dei quali per modificare leggi sul lavoro. Sulle intenzioni di voto si sono divisi i sindacati: cinque sì per Cgil, due sì e libertà di coscienza sugli altri per Uil, astensione per Cisl. Anche la neoeletta presidente di Confindustria Emilia, Sonia Bonfiglioli, si è espressa, dichiarando che andrà a votare cinque no. Abbiamo chiesto della posizione di Confindustria sul referendum e delle sfide che le imprese emiliano-romagnole affrontano a Maurizio Marchesini, vicepresidente nazionale dell’organizzazione.
La presidente Bonfiglioli ha dichiarato il suo voto, cinque no, è la stessa posizione di Confindustria?
«Sui primi quattro quesiti, quelli sul lavoro, sì. Il quinto sulla cittadinanza ha un valore più personale per ognuno e lo lascio fuori. Votiamo quattro no perché sarebbe un salto indietro. Al momento abbiamo un’occupazione stabile se non in aumento e le catastrofi paventate dieci anni fa, si parlava di dieci milioni di licenziamenti, non sono mai successe. Sono poi scettico in particolare sulla modalità referendaria. Domande sì-no così secche non permettono di affrontare adeguatamente il tema».
Come sarebbe meglio procedere?
«Sulle grandi questioni che interessano il lavoro bisogna sedersi tutti insieme a un tavolo e discuterne. La sicurezza sul lavoro, l’integrazione delle nuove tecnologie negli ambienti lavorativi, sono sfide comuni che non si risolvono con gli schieramenti che si creano con un referendum, di per sé divisivo. Non è proprio questo il momento adatto per essere divisi. Vorrei ricordare che anche Gesù o Barabba fu un referendum, non andò tanto bene».
In questo senso valuta positivamente la proposta della Cisl, recentemente divenuta legge, sui dipendenti-soci?
«La legge è partita con l’obiettivo di attenuare la contrapposizione fra imprenditore e lavoratori favorendo invece un sistema di accordo preventivo. La gestione dei metodi di partecipazione dei dipendenti nei consigli d’amministrazione e nella divisione degli utili si basa comunque sulla volontà delle singole aziende, non ci sono obblighi che possono causare storture e intaccare la produzione. Finché all’imprenditore viene lasciata la possibilità di scegliere, per noi tutto bene».
Un tema caldo per le imprese emiliane che ora cova sotto le braci sono i dazi statunitensi, annunciati, ritrattati, rinviati, la situazione qual è?
«I dazi sono un problema ancora molto serio per due motivi: non si sa chi li deve pagare, perché ovviamente tutti i contratti con le aziende americane sono antecedenti a Trump, e generano una costante incertezza. Ci sono navi cariche di merci che non possono partire perché non si sa se domattina o fra una settimana spunteranno fuori nuove tariffe. La cosa più grave è proprio questa, la perdita di prospettiva, la mancanza di tranquillità che blocca gli investimenti».
Cosa si può fare per uscire da questo stallo?
«Bisogna fare l’opposto del bullismo economico di Trump. Stringere accordi, favorire il libero scambio altrove. Il commercio con gli Stati Uniti per noi è ovviamente importantissimo e non è pensabile disimpegnarsi del tutto, ma dobbiamo muoverci immediatamente e parlare col Giappone, l’India, il Mercosur (mercato comune di 12 stati sudamericani ndr) per trovare nuovi mercati».
L’industria emiliana non naviga tra l’altro in ottime acque, fra casse integrazioni e cali della produzione, da dove si può ripartire?
«Il calo della produzione lo sta vivendo tutta l’Italia, l’industria è in regresso, l’occupazione tiene per ora, i consumi anche. L’Emilia-Romagna ha il vantaggio che esporta tanto e che esporta in modo molto diversificato. Questo mi rende fiducioso, anche se come dico sempre un imprenditore è ottimista per contratto. Siamo una regione che sa reagire bene, lo si è visto con le crisi recenti, in primis il covid».