Quindici
Il sito e-commerce de La Perla è una raffinata vetrina virtuale. I sofisticati capi di lingerie, gli eleganti ricami e i preziosi completi intimi sono disponibili in taglie e colori diversi per accontentare i gusti e le forme di qualsiasi cliente. Cliccando sull’articolo per procedere all’acquisto, però, qualcosa non funziona: il carrello rimane sempre vuoto. «Il sito della maison restituisce un quadro emblematico di quello che sta accadendo: sono presenti tutti i vari prodotti di ogni collezione, ma comprare non è possibile - racconta Stefania Pisani, segretaria generale Filctem Cgil Bologna che da due anni si occupa della difficile situazione de La Perla - L’azienda è collassata. Non è solo la produzione a essere ferma, ma lo è anche la logistica: i server sono spenti, l’e-commerce è sospeso e la merce è bloccata nei magazzini. La vendita online era l’unica fonte di sostentamento di un marchio che è sommerso dagli ordini, ma che non può evaderli». Il cielo sopra l’azienda bolognese di via Mattei si fa sempre più cupo e scorgere un bagliore di speranza sembra impossibile. Niente mezzi né materiali, i fornitori scappano e dalla proprietà non arriva alcuna risposta: zero investimenti, ritardi nei pagamenti e nessun piano industriale da oltre quattro anni. «La Perla è controllata dal febbraio del 2018 dal fondo anglo-olandese Tennor (chiamato Sapinda all’epoca dell’acquisizione) del finanziere tedesco Lars Windhorst - spiega Pisani - Come organizzazioni sindacali abbiamo subito segnalato che l’ingresso di questa holding destava qualche preoccupazione: Windhorst era un finanziere “discusso” a livello globale.
La Perla era finita nelle mani di un soggetto non propriamente specchiato e il rischio che l’impresa venisse coinvolta in operazioni speculative era alto. Questo è esattamente quello che sembra essere successo». Un’azienda che impiega 324 lavoratrici, composta al 90% da donne con un’età media di 50 anni, e che ora è completamente abbandonata a sé stessa. Sono lontani gli anni in cui la maison aveva trovato un proprio spazio di rilievo tra le eccellenze del made in Italy e poteva contare su una guida sicura, capace di coordinare la maestria artigianale delle sue dipendenti per produrre intimo e lingerie di alta sartoria. La Perla nasce nel 1954 dal sogno di Ada Masotti di fondare un atelier di corsetteria nel nome della migliore tradizione italiana. Da un piccolo laboratorio di Bologna, la sarta imprenditrice dà vita a una realtà che ben presto crescerà a dismisura, evolvendosi e abbracciando il susseguirsi delle tendenze della moda in tutte le sue sfumature. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, impiegava circa 1.200 lavoratrici ed era divisa in quattro sezioni: la Dalmas, che ora è diventata la sede di via Mattei, Le Rose, divisione che si occupava di lingerie e si trovava in San Donato, la Mb International di Quarto inferiore dove si producevano perlopiù costumi e, infine, la Woman a Ozzano specializzata soprattutto nella pigiameria.
«Ho iniziato a lavorare a La Perla nel giugno del 1987. All’epoca la signora Ada non cercava esclusivamente lavoratrici con un titolo di studio nel settore della moda, ma accoglieva anche giovani con voglia di imparare, con lo scopo di crescerli e formarli - racconta Lorena Linari, 52 anni, modellista di lungo corso - Ho avuto la grande fortuna di conoscere personalmente la signora Masotti, una donna veramente umile, una seria imprenditrice con obiettivi chiari e precisi. Amava il suo lavoro e trasmetteva questa passione alla sua “grande famiglia”. C’era sinergia a ogni stadio della filiera e si producevano migliaia di capi dello stesso prodotto, ora non avremo neanche una collezione per celebrare i 70 anni del marchio». Alla morte di Ada Masotti, nel 1992, la guida dell’azienda passa al figlio Alberto che nel 2008 decide di vendere il 70% della proprietà al fondo americano J.H. Partners: «Il proprietario, John Hansen, non capisce quale prodotto ha in mano e pensa di gestirlo esternalizzando la produzione in Asia - racconta Pisani - questo porta a una contrazione dell’organico e crea un buco economico importante: i capi de La Perla prodotti all’estero sono imperfetti e devono essere rispediti alla sede principale per essere corretti dalle mani esperte delle lavoratrici bolognesi. Un costo enorme, che insieme a tentativi di riorganizzazione della linea produttiva per espandersi in altri mercati, porta l’azienda sull’orlo del fallimento nel giugno del 2013».
Dopo una procedura di concordato, La Perla viene messa all’asta e sono diversi gli imprenditori che con rilanci di milioni di euro provano ad aggiudicarsela. Tra questi, anche il proprietario del Gruppo Calzedonia Sandro Veronesi. Alla fine, l’azienda viene acquistata per 69milioni dal fondatore di Fastweb Silvio Scaglia. «Quando Scaglia comprò l’azienda eravamo tutte molto contente - sottolinea Linari - Si trattava di un imprenditore italiano che fin da subito investì in tessuti e pizzi nuovi, pubblicità, sfilate e campionari: eravamo tornate ad essere visibili e competitive». L’euforia però dura molto poco. «La fase Scaglia parte bene, ci sono idee, progetti e investimenti. L’azienda però deve fronteggiare un sovraindebitamento: è così che nel 2018 passa nelle mani di Lars Windhorst e del fondo Tennor», spiega Pisani. Lars Windhorst, filantropo e multimilionario tedesco di 46 anni, non è di certo un personaggio banale. Definito dal cancelliere Helmut Kohl un “ragazzo prodigio” dell’imprenditoria, è spesso finito al centro di fallimenti societari e battaglie legali. Una delle più celebri ha riguardato H2O, asset francese di Tennor che a gennaio ha rimediato una multa record di 93 milioni di euro dalle autorità transalpine per violazioni in investimenti, vendita e riacquisto di titoli. A luglio, come riporta il Financial Times, l’Alta Corte di Londra avrebbe congelato diversi beni di Windhorst per un valore di circa 150 milioni: tra questi, una villa a Los Angeles, uno yacht da oltre 2 milioni e una collezione di orologi stimata circa 600 mila euro. A inizio novembre, l’ufficio londinese Perla global management UK è stato liquidato dal giudice per debiti fiscali che ammonterebbero a 12 milioni di sterline. «Fin da subito abbiamo avuto la percezione che il fondo fosse unicamente interessato a sfruttare il marchio La Perla, che ancora oggi ha un suo peso in ambito nazionale, non so ancora per quanto - spiega Barbara Prati, 52 anni, addetta alla tintoria e in azienda da 32 anni - Non sono mai state presentate prospettive, il proprietario non sa neanche chi siamo».
La situazione è drasticamente peggiorata in estate: «Il 10 agosto abbiamo saputo tramite un messaggio che non avremmo ricevuto lo stipendio, già ridotto per contratto di solidarietà. Successivamente i computer hanno smesso di funzionare, perché le licenze non sono state rinnovate. Nello stesso periodo non sono venute nemmeno le addette delle pulizie perché la proprietà non le pagava. Non abbiamo stoffe, seta o filati: chi può improvvisa con materiali di magazzino, io sono in tintoria e passo 8 ore a scaldare una sedia, è avvilente». Dall’inizio di settembre, le operaie hanno deciso di sfruttare la pausa pranzo per manifestare: riunioni, assemblee e presidi ai cancelli di via Mattei. La creatività che contraddistingue il loro lavoro ha trovato terreno anche nell’espressione del proprio dissenso. Fischietti, magliette, tamburi, cartelloni ironici “Ci avete lasciate in mutande” e cori mutuati da iconici brani del passato. Così mentre sulle note di “Romagna mia” le lavoratrici cantano “La Perla mia”, i rumorosi e colorati presidi coinvolgono gli automobilisti e attirano le attenzioni della stampa, creano unione nel tentativo di esorcizzare la paura per il futuro e portano avanti l’obiettivo di ogni dipendente dell’azienda: tornare a lavorare, ma soprattutto salvare un marchio storico per lasciarlo in eredità alle nuove generazioni.
«Questa è una lotta di donne abituate ad avere a che fare con il Bello e la creatività, una lotta lontana dalle battaglie muscolari e machiste di un tempo - sottolinea Pisani - è un modo di manifestare ironico e sagace, ingegnoso e testardo, caratteristiche tipiche della dimensione femminile. Per me è commovente rappresentare queste lavoratrici che si battono non solo per la tutela dei loro diritti e per mantenere la loro occupazione, ma denunciano anche la mancanza di possibilità di trasferire la loro conoscenza decennale e la propria maestria artigianale alle operaie di domani». Secondo Pisani, le operaie de La Perla sono anche il simbolo di una capacità di inventiva e di adattamento straordinaria: «Ad esempio, quando l’azienda ha smesso di mandare i ferretti per fabbricare i reggiseni, loro si sono inventate un prototipo che non ne aveva bisogno e l’hanno messo in produzione». Non è la prima volta che le lavoratrici si mobilitano per ottenere diritti e miglioramenti contrattuali: «Io ho iniziato a lavorare a febbraio del 1991 e di lì a poco ho fatto il primo sciopero perché non veniva firmato il contratto nazionale - racconta Angela Piva, 52 anni, addetta alla cucitura - Il 27 dicembre del 1997 poi, andammo sotto la sede di via del Fonditore per ottenere che diverse colleghe in esubero avessero un prepensionamento dignitoso. Resistemmo per ore al freddo, ma alla fine ci fecero parlare con i collaboratori diretti di Masotti». «Un’altra conquista ottenuta insieme ai sindacati fu nel 2019, quando vennero dichiarati 126 esuberi: trovammo un accordo al Mise che consentiva di trasferire le uscite verso le colleghe che erano prossime alla pensione - continua Piva - Negli anni il modo di manifestare è un po’ cambiato, in precedenza gli scioperi erano soprattutto con modalità “a scacchiera”: le maestranze si dividevano in gruppi e a turno abbandonavano le proprie mansioni per un quarto d’ora, spezzettando la giornata e rendendola di fatto improduttiva. Abbiamo sempre manifestato in modo pacifico, spesso originale, per reclamare quello che ci sembrava giusto». Nel frattempo, i sindacati continuano a cercare risposte dalla proprietà: «Windhorst ha promesso negli anni immissioni di liquidità e la presentazione di un piano industriale mai pervenuto - riferisce Pisani - In pieno sfregio non solo alle lavoratrici ma anche alle istituzioni, concede brevi interventi collegandosi dal suo jet privato o manda al suo posto consulenti senza mandato a operare. Uno di questi, nel mezzo di una riunione sindacale per capire quali sarebbero state le sorti di centinaia di famiglie, si è messo a mangiare una banana.
A giugno 2023 Windhorst ha comprato una villa a Beverly Hills per 49 milioni di dollari: nello stesso mese all’azienda era stata garantita un’immissione di 60/70milioni, mai arrivata». La questione ha assunto ora carattere nazionale. Il 6 novembre si è riunito al ministero delle Imprese e del Made in Italy il tavolo di crisi tra istituzioni, sindacati e proprietà. «Invece di Windhorst si è collegato il suo consulente Bendar Murphy, che ha promesso per l’ennesima volta un piano industriale in quattro mesi e ha lanciato preoccupanti dichiarazioni sulla riduzione dei posti di lavoro». Il governo ha deciso di iniziare prossimamente un’azione insieme a Regione, Comune e Città metropolitana di Bologna per proteggere il marchio e le dipendenti. «Salveremo l’azienda anche senza la proprietà», ha dichiarato la sottosegretaria alle Imprese e al Made in Italy Fausta Bergamotto. Le lavoratrici ora puntano a Londra: «Se la proprietà non ci dà risposte concrete, andremo a protestare davanti alla sede europea del fondo. Non ci fermeremo e continueremo a lottare».
La manifestazione delle lavoratrici davanti all'azienda. Foto di Riccardo Benedet
L'articolo è stato pubblicato nel numero 11 del "Quindici" il 16 novembre 2023