Colosso europeo

Benvenuti nella stalla dove gli animali praticano la mungitura fai-da-te: sono lontani i tempi in cui il latte veniva spremuto a mano, ma ora è finita anche l’epoca delle mucche schiave delle macchine, costrette a fare la fila due volte al giorno per liberarsi dal peso. Da sette mesi, all’azienda di Bentivoglio Il Paleotto è arrivato il robot che prende il latte agli animali quando loro lo desiderano. Chi non ha mai messo piede in una stalla potrebbe stupirsi, ma questo sistema innovativo funziona proprio così: la vacca è libera di entrare nel robot di mungitura quando vuole, non appena sentirà il bisogno di liberarsi dal latte. Qui, la macchina pulirà i suoi capezzoli con spazzole speciali, mungendola fino a quando non potrà andarsene soddisfatta. È proprio da Il Paleotto, questa piccola azienda a conduzione familiare a pochi chilometri da Bologna, che parte il nostro viaggio dentro la Granarolo: un colosso dell’industria alimentare, da quasi un miliardo e mezzo di fatturato, terzo in ordine di grandezza dopo Barilla e Ferrero, con 2.592 dipendenti sparsi in 23 stabilimenti, 14 in Italia e 9 all’estero. Nata nel 1957 come Consorzio bolognese produttori latte, nel tempo si è estesa sempre più: da piccola latteria regionale a grande realtà nazionale. Nel 1972, fondendosi con la cooperativa Felsinea Latte, ha dato vita al Consorzio emiliano-romagnolo produttori latte, una delle prime cooperative unitarie d’Italia.

Oggi Granarolo è la più grande filiera del latte italiano: lavora 840 tonnellate di prodotto all’anno che raccoglie con 96 cisterne e distribuisce, in bottiglia o trasformato in formaggi, nei supermercati italiani ed esteri. Il nostro viaggio alla scoperta di questa realtà non poteva, perciò, che partire proprio da una stalla. Il Paleotto è una delle 630 aziende socie di Granarolo. Socie significa proprietarie perché, unite nella cooperativa Granlatte, controllano Granarolo Spa, l’azienda che trasforma e vende il loro latte. Ad accoglierci c’è Agnese Mazzacan, allegra signora di settantasette anni, innamorata delle sue mucche e delle sue «malinconiche origini contadine», come le chiama lei. Ci dà il benvenuto nella sua stalla: l’odore degli animali, il puzzo se volete, si sente, ma il silenzio è quasi assordante in un ambiente pulito, meticoloso, perfettamente ordinato. «L’abbiamo chiamata ‘Il Paleotto’ perchè dicono che sotto questo terreno ci siano otto pale d’oro... in settant’anni che abito qui, ancora non ne ho trovata neanche una!», scherza. Con lei ci sono Luca, Antonello e Monica Prandini, i suoi tre figli, ciascuno con un incarico diverso e ben preciso. Monica cura la contabilità, Antonello la parte agricola, mentre Luca si occupa dei parti e delle fecondazioni degli animali. Grandi ciotole piene di mangime sono posizionate davanti alle stalle. Un miscuglio giallognolo – fieno, paglia, farina, soia, sali minerali e vitamine – viene distribuito da un macchinario apposito che, a orari specifici, dispensa a ciascun animale l’esatta razione di cibo che deve mangiare. A incuriosire, però, sono altre piccole vaschette, a pochi metri l’una dall’altra e contenenti luccicanti granellini bianchi. «È sale pastorizio – spiega la signora Agnese – le mucche ne hanno bisogno: se fossero in campagna lo troverebbero naturalmente nell’erba, ma qui sono chiuse, quindi glielo diamo noi». La signora prende ora un grande secchio e dà da bere agli animali un denso liquido viola. «È maltores – dice – una miscela fatta con le barbabietole. Sono zuccheri che diamo alle vacche prima e durante il parto, per sostenerle e fortificarle: per una cura in ogni fase della loro vita, un pieno benessere animale». “Garantire il benessere animale”: è proprio questo, infatti, uno dei tratti contraddistintivi dell’operato della Granarolo e, dunque, anche dei suoi soci-allevatori. In un’ottica di sostenibilità, l’azienda ha fissato per il 2030 l’obiettivo di ridurre del 30% le emissioni di gas per chilogrammo di latte. Per raggiungerlo, tante singole trasformazioni, a tutti i livelli della produzione: allungamento delle scadenze dei prodotti, riduzione della plastica nel packaging e, appunto, aumento del benessere animale in stalla. C’è un mondo da scoprire. Un veterinario sta visitando le mucche, ma non è solo: con lui, anche un ecografo. «Ebbene sì, ce l’hanno anche le vacche, proprio come noi persone umane!», scherza la contadina. Si potrebbe non sapere molto su questi animali, specialmente per chi vive in città, ma la signora Agnese è preparatissima e descrive tutto nel dettaglio. «Una mucca, in media, pesa circa sette quintali – dice – nella sua vita, più partorisce meglio è... ma di solito non rimane incinta più di cinque o sette volte». A questo punto si presenta Jessica Chilli, corporatura minuta e occhi a mandorla color nocciola: è lei che gestisce la parte tecnologica dell’azienda e che ci mostra l’innovativo robot di mungitura. «Lo abbiamo inserito da quasi sette mesi – spiega –. Qui l’animale può entrare a mungersi quando vuole. Non appena sente un po’ di latte nella mammella, asseconda il suo bisogno e va a farselo tirare».

Questo strumento consente la piena tracciabilità dei dati e il loro continuo monitoraggio, nel corso di tutto il processo: l’allevatore, grazie al sistema digitalizzato del computer, può rilevare in ogni momento l’esatta quantità di latte prodotto, i suoi valori specifici, i parametri. Ed è questo un altro punto focale del gruppo. La Granarolo, infatti, attua un presidio totale sull’intera filiera, con controlli in ogni fase della produzione: dalla stalla, al trasporto, sino alla distribuzione nei punti vendita. La mucca è adesso all’interno del robot. Prima di entrare le è stata tagliata la coda, così da evitare, qualora i peli dovessero incastrarsi tra le spazzole, un possibile inceppamento del macchinario. «Le vacche sono animali molto consuetudinari – dice Chilli – hanno bisogno di tempi lunghi per adattarsi alle novità. È per questo che, prima di partire con il robot, abbiamo fatto due mesi di addestramento, per farle abituare al nuovo sistema». Tutte hanno un collare con un codice identificativo: quando entrano nel robot, il computer ne annota l’ingresso, registrando per ciascuna il numero esatto di mungiture. Inizia la fase del pre-trattamento. Spazzole speciali ‘puliscono’ i capezzoli delle mucche, poi un breve massaggio sul ventre e, finalmente, ecco uscire le prime goccioline di latte. Una decina di minuti per animale e già dietro si è creata una fila lunghissima. Verrebbe da chiedersi quanto latte venga munto. «La media è, solitamente, di trentuno chili al giorno per vacca, circa dieci chili a mungitura – spiega la tecnologa della stalla –. Ultimamente c’è stato un calo a causa del caldo: questi animali sono come me, amanti del freddo!», aggiunge scherzando. Dopo essere stato munto, il latte viene stoccato all’interno di grandi serbatoi, riposto in frigo e infine raccolto dai camion – che passano una volta ogni due giorni – per essere portato in stabilimento. Ed è proprio lì, nello stabilimento bolognese della Granarolo, che continua il nostro percorso.

La sede di Via Cadriano 27, a pochi minuti dal capoluogo emiliano-romagnolo, è quella principale e conta oltre trecento dipendenti. Sulla facciata dell’edificio, di un bianco smaltato, ecco la caratteristica insegna color verdino: in stampatello minuscolo il colossale marchio della Granarolo. Abbassando lo sguardo, poco prima della porta d’ingresso, tanti uomini camminano a passo svelto, pronti per entrare a lavoro. Tra loro c’è anche Tommaso Simili dell’ufficio comunicazioni e relazioni esterne Granarolo: sarà lui il Cicerone della seconda parte del nostro viaggio. Appena varcati i cancelli, ecco comparire una lunga fila di giganteschi furgoni bianchi: le cisterne. Hanno una capienza di trentamila litri e sono qui per la ‘pesa’, una sorta di bilanciere che attesta la quantità di latte contenuta in ciascun camion. Ne arrivano circa una ventina al giorno e, dopo «la ‘prova bilancia’ dal nutrizionista», come dice scherzando Simili, vengono accolti in ‘accettazione’: «una specie di reception in cui fare il check-in». Il latte viene qui sottoposto a numerosi controlli e analisi, per accertare la piena aderenza ai parametri previsti dalla legge. «Prima di depositarlo in reparto, dobbiamo assicurarci che il latte sia sicuro – spiegano i tecnici di laboratorio –. Facciamo dei campioni e, in base all’esito, diamo o meno il permesso per il suo rilascio. Presenza di antibiotici, pH, percentuale di grassi e proteine, tasso di aflatossina: se il latte rientra negli standard viene scaricato, altrimenti si blocca il processo». Sebbene qui dentro si parli solo di “latte”, tuttavia, non è questo l’unico bene prodotto dalla Granarolo.

Certamente, la sezione siero-casearia continua a costituire il core business e l’anima dell’azienda, ma, ad oggi, è divenuto sempre più necessario arricchire l’offerta, allargare il mercato. «Oltre 20milioni del nostro fatturato provengono dai nuovi prodotti che abbiamo lanciato senza lattosio, a basso contenuto di sale, proteici e vegetali – dice Tommaso Simili –. Un ricco paniere per soddisfare al meglio le sempre più variegate esigenze dei consumatori». Entriamo nel comparto di confezionamento. Nonostante fuori sia caldo, qui dentro fa freddissimo e ci starebbe proprio bene un bicchiere di latte caldo. I dipendenti, che indossano mantelline e cuffiette verdi e portano ai piedi ingombranti copri-scarpe, si muovono frettolosamente accanto a giganteschi macchinari in acciaio: sono scaldatori a piastre e intiepidiscono il liquido prima di farlo entrare nella ‘scrematrice’. Si tratta di una grande macchina a effetto centripeto che, girando, divide il latte magro dalla panna: mentre il magro scende giù, la panna entra nel ‘titolatore’, per immettere il ‘titolo’ del grasso. Infatti, proprio in base al tipo di latte – parzialmente scremato, alta qualità o altro – serve una dose di panna differente: il titolatore butta, in mezzo alla componente di latte magro, il quantitativo di panna necessario per produrre il titolo di latte che occorre. ‘Bactofuge’ è invece il nome del macchinario successivo: una centrifuga che “pulisce” il latte, prima di spedirlo nell’ ‘omogeneizzatore’. «Questo strumento rompe i globuli di grasso contenuti nel liquido – spiega un operaio – e lo rende, appunto liscio e omogeneo».

Nella fase finale, quella della ‘pastorizzazione’, il latte gira per nove secondi a 95 gradi tra i tubi di un grande macchinario – chiamato appunto ‘pastorizzatore’ – e poi, tornando indietro, si raffredda, sino alla temperatura di 4 gradi. Imbottigliamento, etichettatura, immissione nei camion e distribuzione sono gli step successivi. «Dal 25% al 50% delle nostre bottiglie sono fatte in PET, un materiale plastico interamente riciclabile – spiega Tommaso Simili –. Le altre sono in carta, che però è più costosa. L’obiettivo è sempre quello: il risparmio di CO₂ e la salvaguardia dell’ambiente, in un’ottica di sostenibilità». I piccoli flaconi vengono così gonfiati sino a diventare bottiglie vere e proprie, pronte per essere riempite. Ora i furgoni partono. Tra le loro destinazioni, non solo località italiane, perché Granarolo è attiva anche all’estero. Sin dall’inizio, infatti, la mission dell’azienda è sempre stata quella di “valorizzare il latte dei propri soci-allevatori”: è proprio per questo che, dal 2011, il gruppo ha deciso di allargare la produzione anche oltre i confini nazionali. «Siamo presenti in 76 paesi del mondo – dice Simili – in Italia, oggi, si beve sempre meno latte, altrove non è così: andare all’estero ci mette al riparo». Un trend che, tra l’altro, è in grande crescita: infatti, se nel 2011 la quota di export era il 4%, nel 2022 ha raggiunto il 39%. Nonostante i problemi legati ai costi crescenti – materie prime, nutrimento per animali, acquisiti ordinari – e alla necessità di far quadrare i conti, Granarolo riesce tuttavia a chiudere con un attivo di ben 2 milioni di euro, affermando e consolidando così il proprio successo in tutta Europa. Siamo giunti alla fine. In magazzino, centinaia di bottiglie impilate una sopra l’altra: su ognuna, la scritta “Granarolo”. E, mentre questo viaggio si conclude, ne ha ora inizio un altro... quello del latte.

 

Foto di Lavinia Sdoga

 

Articolo pubblicato su Quindici del 2 novembre 2023