quindici
La mattina presto, fuori dallo stabilimento di Crevalcore, i lavoratori e le lavoratrici che stanno in presidio ai cancelli raccontano coi loro volti di una stanchezza che, a un mese dall’inizio di questa vertenza, incomincia a farsi sentire. L’autunno della bassa consegna la prima nebbia, che anticipa le prossime settimane, quando là fuori arriverà il vero freddo. Seduti su sedie in plastica controllano i cellulari e si fanno un caffè alla macchinetta. Dopo che il clamore delle prime settimane si è dissipato, e le televisioni hanno avuto altro da raccontare, loro sono rimasti lì, stoici e ostinati. E così lo sono stati dai primissimi giorni dopo quel 19 settembre. Quel giorno, a chi sta facendo il turno del pomeriggio, viene chiesto di uscire dallo stabilimento di Crevalcore. Qualcuno pensa addirittura a un terremoto, nessuno immagina una chiusura. Qualche ora prima, la dirigenza dell’azienda, in riunione con le rappresentanze sindacali, ha messo nero su bianco la decisione di chiudere lo stabilimento della bassa bolognese e di disporre il trasferimento in quello di Bari. 229 persone, tra cui più di una ventina di coppie, alcuni a Crevalcore da una decina di anni, altri da più di ventisette. Negli ultimi vent’anni in Italia si è assistito al ripetersi di situazioni simili. E la domanda posta agli operai è sempre stata la stessa: «Non avete avuto nessuna avvisaglia?». A Crevalcore, ancora una volta, la risposta è negativa. C’erano commissioni fino al 2028 e in arrivo una nuova linea euro 7, che avrebbe portato alla produzione di componentistica più sostenibile in conformità alle direttive europee. Una menzogna – riferisce Giuseppe Di Stefano, segretario Uilm Bologna – confermata proprio qualche settimana prima dai vertici. «Le difficoltà espresse durante gli incontri precedenti erano circoscritte, e riguardavano soprattutto i rincari di energia e gas, insieme a un calo delle richieste di alluminio. Una doccia fredda», racconta Francesco Simeri, delegato Uilm in azienda dal 2010. Ma che non ha paralizzato nessuno.
Dal giorno dopo, fuori dallo stabilimento sono apparsi gli striscioni di tutte le rappresentanze sindacali. “Crevalcore non si tocca” si legge in uno di questi. E sono stati montati i gazebo, portati i tavoli e le sedie. Le casse d’acqua e un barbecue a carbonella. Le prime domeniche sono venuti i figli di chi lavora in Marelli, di cui rimangono ancora le tracce col gesso sull’asfalto e qualche disegno appeso alla bacheca. Hanno capito immediatamente che si sarebbe trattato di lottare a lungo e allora si sono organizzati di conseguenza. Ad oggi siamo al 31esimo giorno di presidio, che le lavoratrici e i lavoratori hanno organizzato con uno sciopero a scacchiera occupando i cancelli. A turno, ogni ora, escono ed entrano tra le 7 e le 10 persone, firmano la loro presenza e rimangono ad assicurarsi che nulla esca dallo stabilimento. «In azienda ora entrano pochissimi componenti– spiega Simeri – Dobbiamo capire quanto riusciremo a mantenere questo ritmo e ciò dipenderà da quante scorte hanno fatto in questi mesi». Quello di oggi è un muro. Alla posta elettronica a cui i lavoratori possono accedere, non arriva più nulla. «È come se avessimo la spina staccata – racconta Sergio Manni, da 24 anni in Marelli – Anche i nostri primi livelli di stabilimento, che con la direzione parlavano ogni giorno, non hanno più avuto comunicazioni. Dopo i primi giorni ci hanno chiuso le porte in faccia». Che questa possa essere l’eredità di un marchio così importante nell’ambito dell’industria automobilistica in regione e in Europa sembra incredibile. Il Gruppo Magneti Marelli nasce nel 1919 a Sesto San Giovanni, periferia di Milano. Dove inizia a produrre componentistica meccanica con Fiat socia al 50%. I suoi clienti sono Ferrari, Maserati e Harley Davidson, dal 1973 apre la fonderia di Crevalcore. Cinquant’anni di attività per il sito oggi condannato a chiudere, se non sarà trovato qualcuno pronto a intervenire con un urgentissimo piano industriale. Che significa, di fatto, un progetto che non fugga dalla transizione, ma mantenga le garanzie occupazionali. Su questo aspetto continuano a insistere i sindacati e la Regione. Che contestano la chiusura motivando la buona salute del sito, ma soprattutto la responsabilità, prima di Fiat Chrysler, oggi Stellantis, e poi della proprietà attuale, nel non aver mai riconvertito adeguatamente l’impianto. E soprattutto l’inspiegabilità di una scelta così frettolosa, dopo soli 5 anni dalla vendita per 6,2 miliardi di euro alla giapponese Calsonic Kansei, controllata dal fondo americano Kohlberg Kravis Roberts (Kkr).
Su questo ha insistito anche il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini: «Pretendiamo che nessuno venga a fare cassa sulla pelle di centinaia di lavoratrici e di lavoratori», ha precisato prima dell’incontro con Kkr lo scorso 28 settembre. Da quel nulla di fatto si è arrivati al coinvolgimento del Governo. Il 3 ottobre, su convocazione del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, si è svolto l’ultimo incontro con la proprietà. Che dopo aver sospeso a tempo indeterminato la procedura di chiusura del sito, ha precisato di aver messo un advisor alla ricerca di un possibile interessato. «Nonostante la Regione e il Governo abbiano a disposizione per il settore automobilistico grossi finanziamenti, 22 milioni più 6 miliardi, quello che abbiamo visto nei loro volti è totale indifferenza – racconta Sergio Manni – non vogliono il business di Crevalcore. Vogliono delocalizzare e centralizzare negli stabilimenti più grandi la replica di stabilimenti come questo». Sergio Manni dal 1999 si occupa di manutenzione e di tecnologie di processo a Crevalcore. Da Gallipoli si è trasferito nella bassa e ha messo su famiglia. Lui e la moglie hanno due ragazzi di 12 e 15 anni a cui, dopo la comunicazione della chiusura, ha provato a parlare di un possibile trasferimento. «Mi hanno detto di no ovviamente, hanno la scuola e le amicizie, è normale e giusto». Ma pur continuando l’attività di presidio si pensa anche a quella che potrà essere l’evoluzione dall’8 novembre, a quella data è stato convocato il nuovo incontro con il ministro Urso e Kkr: «Non mi sembra abbiano nemmeno provato a pensare a un progetto che li riguardasse, non gli passa nemmeno per la testa. Ora c’è totale mancanza di fiducia, anche se mi offrissero di andare allo stabilimento di Bologna io non andrei». Anche Veronica Di Giorgio, in Marelli da 22 anni, è rimasta pietrificata dalla comunicazione della chiusura: «Una scelta assurda che non tiene in considerazione la dignità di noi lavoratori e di chi qui ha famiglia». «Un tradimento – precisa Francesco Simeri – perché a quest’età non ci consente né di andare in pensione né di essere facilmente ricollocabili. Io ho 58 anni, la mia compagna lavora qui, e dopo 13 anni questa è una mazzata. Perché l’azienda, nei vari incontri, ci illustrava una produzione fino al 2028. E so per certo che gli ordini per i macchinari arrivati a Bari vanno fatti con un anno di anticipo». Anche sullo stabilimento di Bologna si inizia a tenere le orecchie aperte. Lì ci sono in gioco 560 dipendenti, tra cui Donato Carpinone, delegato Fim Cisl: «La riconversione è giusta, ma non va subita dagli operai. Soprattutto per mano di un fondo come Kkr che da mesi è in trattativa per l’acquisto di Tim». Su questa cessione Kkr-Tim, che coinvolge anche il Governo, si potrebbe fare forza. Un’operazione che si aggirerebbe attorno ai 24 miliardi di euro, di cui almeno 2,2 di denaro pubblico.
In tutto questo resta da capire se lo stabilimento di Crevalcore sarà il primo di una serie. In Italia sono 11 gli stabilimenti Marelli attivi che si occupano di componentistica per l’endotermico. Ma le politiche industriali a livello nazionale non vengono fatte da anni. Sull’obiettivo zero emissioni per auto e furgoni entro il 2035, anche la sinistra italiana, ora in solidarietà ai cancelli Marelli, si è detta favorevole. Ma di politiche economiche che possano rispondere adeguatamente all’enormità di capitale umano che si andrà a perdere senza una conversione di queste aziende non c’è traccia. Se nomi come Lamborghini e Ducati non sembrano avere problemi, investendo già nell’elettrico e negli e-fuel, aziende come Marelli rischiano di essere le vittime di una corsa contro il tempo. E se anche in Emilia-Romagna, dove la Regione ha messo a disposizione più incentivi che in altre, chiude uno stabilimento così centrale per il settore, spazzando via centinaia di posti di lavoro, quale potrà mai essere il futuro di tutte le altre.
Nell'immagine il presidio della Marelli sotto la sede della Regione. Foto: Ylenia Magnani
Questo articolo è stato pubblicato nel numero 9 del "Quindici", supplemento bisettimanale di InCronaca, lo scorso 19 ottobre